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Esteri

La Coronela Manuelita Sàenz Aizpuru Patrizia Boi intervista Maddalena Celano

Cerchiamo di esplorare il mondo complesso e colorato di Manuela Sàenz, una delle donne più coraggiose delle Americhe, rivoluzionaria ecuadoriana e compagna di lotta e di vita del Presidente della Grande Colombia Simòn Bolìvar.

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Di Patrizia Boi

La Coronela Manuelita Sàenz Aizpuru

Patrizia Boi intervista Maddalena Celano

La Coronela Manuela Sàenz

«Fui una mujer valiente, desinhibida, libre de cualquier tipo de prejuicio, con voluntad y firmeza revolucionaria, con un amor por Simón Bolívar que no tiene igual en la Historia».

Patrizia Boi

Cerchiamo di esplorare il mondo complesso e colorato di Manuela Sàenz, una delle donne più coraggiose delle Americhe, rivoluzionaria ecuadoriana e compagna di lotta e di vita del Presidente della Grande Colombia Simòn Bolìvar.

Maddalena Celano, studiosa del mondo Latinoamericano, scrittrice e saggista, archeologa di senso, amante delle Donne Amerinde e delle personalità femminili che popolano l’America Latina, ci racconta Manuelita attraverso le mie domande.

Molti conoscono Manuelita come l’amante di Simòn Bolìvar, ma chi era veramente Manuela Sàenz ancor prima che conoscesse il Libertador?

La maggioranza degli storici odierni la descrivono come una donna estremamente indipendente e con carattere forte. Figlia dello spagnolo Simón Sáenz e della creola María Aizpuru, è nota per il suo spirito ribelle: a soli 17 anni fuggì dal Convento di Santa Catalina, dove studiava, con un amante. Un anno dopo iniziò a militare attivamente per gli ideali indipendentisti facendo volantinaggio, raccogliendo beni e denari (per finanziare la causa indipendentista) e creando una piccola rete di spionaggio. Ha aiutato uno dei suoi fratellastri a far carriera militare nell’esercito patriottico, ragione per cui si è avvicinata alla scena politica, molti anni prima di incontrare Bolívar. Grazie alla sua eccezionale dedizione, divenne “Cavaliera dell’Ordine del Sole”, insieme alle altre 111 donne decorate dal Libertador e Generale José de San Martín.

Che rapporto c’era tra Manuelita e le donne Amerinde?

Le donne spiavano i ‘realisti’ (sostenitori monarchici), prevenivano gli agguati, scoprendo quanto potevano sulle truppe. Dame, ragazze, domestiche e schiave facevano amicizia, collaboravano superando barriere classiste e razziali, e facevano anche l’amore con gli ufficiali nemici (se necessario) per ottenere informazioni preziose alla causa patriottica. Sono state, ovviamente, più riconosciute le creole o le compagne dei grandi comandanti. Manuela Sáenz e Juana Azurduy, sono esempi di donne che ebbero vite turbolente, entrambe appassionatamente impegnate per la libertà di ‘Nuestra America’, entrambe morte nell’oblio, nella solitudine e nella miseria. Indomabili contemporanee furono colonnelle e amiche. Manuela, creola, Juana, importante comandante indigena. Le donne della classe agiata creola giocarono un ruolo importante nelle lotte per l’indipendenza, favorendo una socialità in cui le idee indipendentiste venivano dibattute e difese. Tuttavia, le donne indigene erano, spesso, coloro che impugnavano le armi e combattevano, con gli uomini, le guerre. Molte persero la vita. Gli uomini furono perseguitati, torturati e assassinati, sui campi di battaglia e nelle prigioni, ma anche le donne furono umiliate: le facevano montare nude su un asino, ricoperte di miele e piume, le frustavano esibendole in pubblica piazza, prima assassinarle. Alla crudeltà si aggiunsero scherno e ostentazione, sottolineando la convinzione che fossero paragonabili alle prostitute e, comunque, inferiori agli uomini rivoluzionari. Maggiore era il riconoscimento del coraggio e del contributo rivoluzionario delle donne, maggiore la brutalità delle rappresaglie. Esse guidavano e partecipavano ad azioni di guerra, discutevano strategie e assumevano conseguenze come torture e morte: le bianche creole rivoluzionarie collaboravano, con le rivoluzionarie indie o afrodiscendenti, rompendo i canoni “razziali” e “di genere” dell’organizzazione sociale dell’epoca. In quel periodo sembrò possibile l’uguaglianza tra donne e uomini, così come l’eguaglianza “razziale”, ma una volta terminate le battaglie, il dominio maschile e razziale prevalse ancora una volta. Gli uomini, timorosi dell’avanzata femminile nella vita pubblica, le restituirono alle loro case e alla tradizione del silenzio e della sottomissione al maschio, rinchiuse nella sfera domestica e lontane dai regni del potere. Gli indios e i neri furono restituiti alla loro tradizionale miseria e anomia o alla schiavitù.

Quale evento della sua vita la avvicinò all’idea rivoluzionaria di Bolìvar?

Manuela, all’età di 14 anni, vide la rivoluzione indipendentista a Quito. Nel 1809, vicino a casa sua, i patrioti creoli costrinsero il Presidente della Corte Reale di Quito, Manuel Ruiz Urriés de Castilla, a lasciare il Palazzo del Governo, liberando la città. Molte donne furono coinvolte in questa azione libertaria. Un anno dopo, i ‘realisti’ tornarono al potere e gli indipendentisti furono incarcerati. Nel tentativo di rivolta per farli uscire di prigione, tutti i patrioti furono uccisi. Il massacro si estese alle strade e morirono 300 persone. Questa barbarie segnerà Manuelita per tutta la vita determinando la sua antipatia per gli spagnoli.

Che cosa le piaceva del ‘bolivarismo’?

L’ideale di unionismo latino-americano, continentalismo, e anti-schiavismo, il patriottismo più appassionato, basato su un valore fondamentale: l’amore per l’indipendenza e l’autoderminazione popolare. Bolívar rappresentava l’incarnazione dei suoi ideali, i suoi immensi desideri di libertà, patriottismo, indipendenza e la massima felicità possibile.

Suo padre le comprò due schiave: chi erano e cosa diventarono per Manuela?

Jonotás e Natán furono acquistate come schiave all’età di 9 anni: Manuela insegnò loro a leggere e scrivere e loro le instillarono l’idea di eguaglianza e amore per il prossimo. In seguito, le liberò, ma decisero di continuare a vivere con lei, condividendo tutte le passioni politiche e sociali e restandole fedeli. Anche se raccontano di una relazione omosessuale tra le 3 donne, non esistono fonti attendibili ed evidenze storiche.

Manuela faceva scandalo, quindi suo padre le trovò marito, chi era il prescelto?

Manuelita trascorse un’esistenza senza freni per il suo carattere ribelle. Il primo scandalo, come suddetto, fu la fuga dal Convento dove aveva appreso a leggere e scrivere. La relazione epistolare con Fausto Delhuyar, colonnello dell’esercito spagnolo, compromise l’immagine pubblica di Manuelita, costringendola ad un matrimonio forzato con James de Thorne, un britannico di 40 anni, amico del padre. Dopo la cerimonia nel 1817, Manuelita e Thorne si trasferirono a Lima, dove crebbe il desiderio di indipendenza della donna, contribuendo a promuovere il suo ruolo nella lotta per la liberazione.

L’altro grande scandalo fu la storia d’amore illecita tra Manuela e Bolìvar.

Che relazione s’instaurò col consorte, vent’anni più vecchio?

In realtà, James de Thorne amava sua moglie, ma lei non aveva occhi che per Simòn e lo chiarisce nella sua corrispondenza amorosa. Sfortunatamente, per il mercante inglese, Manuelita non lo trovava né interessante, né affascinante, eppure lui cercò di convincerla a ritornare al nido perché soffriva la lontananza. Era troppo freddo e attento ai suoi affari e lei aveva dentro il fuoco rivoluzionario e il fuoco della passione.

Che rapporti strinse a Lima la Señora De Thorne nella società peruviana governata dalla nobiltà spagnola?

Manuela visse sette anni a Lima, dove divenne membro della “Rete di guerra” di San Martín e Monteagudo: operava strategicamente creando svantaggi materiali all’avversario, attraverso sabotaggio, cospirazione e propaganda politica. Organizzò una vera e propria rete femminile dedita alla congiura e alla propaganda rivoluzionaria. Andando di casa in casa a chiedere stoffa per le uniformi, accompagnata dalla fida Jonotàs, dal turbante rosso, e dalla graziosa Natán, acconciata alla moda. Tutte le case divennero laboratori, dove nobildonne e serve indie lavoravano insieme cucendo uniformi all’esercito. Organizzò anche collette di gioielli e argenteria per finanziare la causa. Controllava ogni cosa, era dappertutto a chiedere, smuovere, lusingare, convincendo la gente a contribuire o costringendola, a volte, grazie alla sua conoscenza dei vecchi scandali di Quito. Dopo il matrimonio, lei entrò a far parte di un circolo sociale privilegiato dagli stretti legami con i poteri politici ed economici: fu ospite fissa alle serate danzanti tenute nelle sale da ballo del viceré spagnolo. Durante questi incontri conobbe Rosita Campusano, l’amante di José San Martín, alla quale offrì se stessa e i suoi compagni per la lotta di liberazione del Perù, fornendo informazioni sulle strategie militari ‘realiste’. Aveva convinzioni politiche opposte rispetto a suo marito e suo padre che, come europei e commercianti, si sentivano minacciati dalla possibilità di una Repubblica e da una successiva rivoluzione socio-politica.

Quando e come conobbe il Libertador?

Manuelita face parte della Commissione addetta al ricevimento di Bolívar dopo la sua vittoria decisiva nella battaglia di Pichincha, e coordinò le azioni di pulizia delle stanze che lo avrebbero accolto: ancora una volta un ruolo politico tradizionale, tipicamente femminile e “domestico”. Ma fu durante l’accoglienza che si verificò il fatidico incontro tra i due. Il 16 giugno del 1822, in mezzo a razzi, fuochi d’artificio e al suono delle campane, il Libertador entrò a Quito tra applausi e festeggiamenti. Dai balconi le giovani donne gettarono splendidi fiori sulla testa dei patrioti a cavallo. Tra loro c’era Manuelita che all’epoca aveva 24 anni. Durante il ballo serale la Sàenz conobbe Bolìvar, che all’epoca aveva 39 anni, e divenne sua amante e compagna fino al 1830, abbandonando definitivamente il marito.

Nonostante fosse sposata, il rapporto clandestino con Simòn, pieno di difficoltà e separazioni, di doveri e rinunce, le diede otto anni di passione, come fu possibile?

Dal momento in cui Manuela si legò a Bolívar, si occupò della protezione del Libertador, organizzando squadre d’informazioni per creare un servizio d’intelligence tattico e strategico di livello. Nel 1824 lui la promosse archivista dello Stato Maggiore e Patriota. Inoltre la chiamerà “la “Libertadora” del Libertador per averlo salvato da cospiratori e attentatori contro la sua vita. Grazie al suo carattere appassionato, impulsivo e a volte tumultuoso, la chiamerà anche la “mia dolce pazza”. La loro relazione amorosa è piena di difficoltà e, soprattutto, di assenze. La maggior parte del tempo sono separati a causa dei viaggi del Libertador. Quando Simón deciderà di concederle un’onorificenza, ci saranno gravi problemi con il vicepresidente della Colombia, il Generale Francisco de Paula Santander, che, indignato, chiederà al Libertador di recedere, considerando denigratoria per i militari la concessione di questo titolo a una donna. Il loro rapporto seguirà la parabola del Generale, che stanco, malato, deluso, si avvierà verso il suo ultimo rifugio a Santa Marta, dove poco dopo sarebbe morto. Oramai sconfitto definitivamente il progetto di un Bolívar che stava morendo, Manuela si autoesiliò in Colombia, dove fu imprigionata con l’accusa di “immigrazione irregolare”. Liberata, si trasferì in Giamaica ma, dopo tre anni, fu esiliata nella regione di Paita, accompagnata solo dalle sue fedeli Natán e Jonotàs.

Possiamo definire questa relazione un matrimonio alchemico?

Quando nel 1822, Bolívar giunse in trionfo in sella al suo nobile cavallo, Manuela gettò dal balcone una corona di allori e rose che gli toccò il petto: lui cercò con gli occhi la colpevole di tale trambusto e incrociò lo sguardo appassionato di lei.  Successivamente, al Ballo della Vittoria, Bolívar le sussurrò parole d’ammirazione e ballarono stretti stretti per tutta la serata. La loro storia d’amore fu coinvolgente, ma col tempo, divenne un amore più maturo e vero. Simón era rimasto vedovo della nobildonna spagnola Teresa del Toro, morta giovanissima in Venezuela, alla quale aveva promesso amore eterno, ma col passar degli anni, ‘La Amable Loca’, conquistò il suo cuore. Manuelita e Simòn condividevano una “visione comune” del mondo e dell’esistenza, medesimi obiettivi e collaborazione politica ed intellettuale reciproca, un erotismo del corpo e della mente, vissuto nel più profondo dell’anima. Relazioni come questa – estremamente rare perché presuppongono una sorta di “parità” intellettuale, vivacità e vitalità cerebrale che si intreccia su obiettivi e visioni comuni – rappresentano il vero e proprio “matrimonio alchemico. In un mondo ancora colmo di disuguaglianza intellettuale e culturale tra uomini e donne, il raggiungimento di una simile fusione e alchimia, rappresenta un “matrimonio sacro”.

Manuelita ha odiato profondamente Santander, perché?

Perché grazie alle informazioni di alcune donne, ha intercettato le cospirazioni di alcuni uomini, tra cui proprio Santander. Così, l’accesso alle reti femminili di gossip e notizie, le ha permesso di agire in modo politico. Sebbene avesse ovviamente ragioni personali per desiderare di salvare e proteggere il suo amante, agì anche per convinzione politica certa che il movimento per l’indipendenza non avrebbe potuto avere successo senza la guida di Bolívar.  Gli suggeriva spesso la strategia politica da adottare, in particolare per difenderlo dall’usurpazione del potere da parte di Santander, che alla fine comunque riuscirà a rovesciarlo.

Come trascorse i 26 anni dopo la morte di Simòn?

Bolívar morì disilluso e demoralizzato. I suoi ideali democratici furono abbandonati e restò solo un disperato tentativo di mantenere e centralizzare il potere. Tra i suoi ultimi scritti restarono parole immortali come «chi serve una rivoluzione ara il mare». Manuela fu coinvolta nella politica di questo crollo dell’unione territoriale e dei valori progressisti. Fu doppiamente discriminata nello sforzo di conservare la forza politica nelle nuove repubbliche: era associata in modo schiacciante alla figura di Bolívar e, dopo la sua morte, lei divenne il fulcro dell’anti-bolivarismo, soprattutto a Bogotá. Fu esiliata in Giamaica nel 1833, dal Presidente colombiano Santander, per aver attaccato una guarnigione che aveva bruciato le immagini di lei e di Simòn. Negoziò poi il ritorno in Ecuador affermando la sua vulnerabilità di genere e che il suo unico crimine fosse l’amore per Bolívar. Fu espulsa dal Presidente Rocafuerte che la considerava una pericolosa sovversiva: l’azione politica femminile era ritenuta innaturale e destabilizzante. La fragilità muliebre la salvò, fu esiliata mentre i “nemici dello Stato” maschi venivano regolarmente uccisi:  fu trattata con delicatezza a causa del suo sesso. Manuela Sáenz cercò di rimanere impegnata in politica, nonostante l’esilio, ma col tempo si radicò sempre più l’esclusione delle donne dalla sfera politica. Negare il contributo di donne come Manuelita è stato fondamentale per collegare il servizio militare alla cittadinanza maschile e quindi riaffermare i confini patriarcali.

Dov’era Paita, come si sentiva Manuela lontana da tutto?

Al di là del luogo comune sessista della sua caratterizzazione come amante di Bolívar, Manuela incarna la figura più completa dell’eroina: dionisiaca, mercuriale, tenace nel senso letterale del concetto. Nonostante l’immagine romantica che la lega al Libertador, Manuela Sáenz morì indigente, invalida e sola, sebbene abbia conservato fino alla fine la sua dignità. Alcuni storici identificano la fine della sua attività politica con la morte del suo amante. In realtà lei visse quasi trent’anni in più ma per i suoi biografi, questo periodo fu solo un tragico epilogo. Nel piccolo porto polveroso del nord del Perù, povera, non più bella, costretta su una sedia a rotelle da malattia e obesità, accoglieva di tanto in tanto qualche visitatore noto e illuminato che consolava la sua triste esistenza: tra questi il patriota italiano Giuseppe Garibaldi, lo scrittore peruviano Ricardo Palma e il suo omologo nordamericano, Herman Melville.

Tuttavia, Paita, posta tra i principali porti come Callao, Guayaquil e, naturalmente, più a sud, Valparaíso divenne un piccolo centro di attività economica. Grazie alla sua baia profonda e protetta, la migliore del nord del Perù, fu scalo fondamentale per i balenieri del New England che solcavano le acque del Pacifico. La città soddisfaceva diverse esigenze dei pescatori: forniva acqua, legna da ardere, viveri, liquori e altri prodotti come sapone, sale, zucchero e tabacco. Questo ha consentito a Manuelita, di sopravvivere apparentemente attraverso il commercio al dettaglio – vendendo sigarette e dolci e facendo traduzioni. In realtà, a Paita, amareggiata e ansiosa, è sopravvissuta grazie all’aiuto di amici e al sostegno del generale Juan José Flores, dall’altra parte del confine. Flores, l’immagine stessa del caudillo e luogotenente bolivariano, nonché una delle figure politiche e militari più bistrattate del XIX secolo, fu per il suo esilio un sostegno costante. Grazie alla sua mente inquieta e alla sua penna agile, le lettere di Manuela Sáenz in cui cerca comprensione, aiuto economico e notizie sulla politica ecuadoriana, sono una vera miniera d’oro. Il finale della sua esistenza eroica, ancora una volta, somiglia a quello di una tragedia shakespeariana.

Morì nel corso di un’epidemia di febbre gialla il 23 novembre 1856: il suo corpo fu gettato in una fossa comune, i suoi effetti personali bruciati per evitare il contagio. Almeno così si suppone: in realtà, i suoi resti non furono mai trovati. In questo momento i suoi presunti o simbolici resti mortali si trovano in Venezuela nel Pantheon Nazionale di Caracas, accanto a quelli del Libertador.

Quando e grazie a quale uomo la memoria di Manuelita fu riportata in luce?

Parte dei documenti di Manuela Sáenz si sono conservati grazie al Generale argentino Antonio de la Guerra che decise di salvare il baule dall’incendio della sua abitazione di Paita. Successivamente, l’imprenditore e storico ecuadoriano Carlos Alvarez Saá, ritrovò misteriosamente il baule con tutta la documentazione. Sebbene questi oggetti siano legalmente di proprietà della Fondazione Culturale Carlos Alvarez Saá, per la loro importanza, appartengono al popolo ecuadoriano e, naturalmente, sono a disposizione di tutti i ricercatori.

Hai dedicato a questa donna due biografie, ora stai lavorando ad un libro sui suoi diari di Paita, cosa emerge da questi scritti?

Si tratta della ricostruzione dei suoi ultimi anni di vita, in esilio, e in solitudine, nel porto di Paita. Per 25 anni visse vendendo tabacco, traducendo e scrivendo lettere per i balenieri nord-americani che passavano nella zona, ricamando e realizzando dolci personalizzati. Durante l’esilio, continuò a scrivere diari in cui ricordava e rielaborava il suo passato e lettere ad amici e conoscenti, affermando sempre: «Ho adorato Bolivar vivo, lo venero morto».

Perché hai incentrato tutta la tua attività verso l’America Latina? Cosa ha colpito il tuo cuore di scrittrice?

Sin da adolescente, ero affascinata dalle ideologie politiche latino-americane. Per quanto incredibile possa sembrare, l’America Latina ha rivitalizzato il discorso e l’immagine delle sinistre, così sminuite, svendute e snaturate (soprattutto in Europa) dopo la caduta del muro di Berlino.

Nascosto dietro la memoria di Bolívar, torna in primo piano il vecchio discorso marxista-leninista, rinnovato e riadattato alla realtà dell’America Latina. Dal trionfo di Hugo Chávez in Venezuela (1998), il Libertador cavalca di nuovo, ma questa volta accompagnato da Marx, Lenin, Sandino, Che Guevara, Allende e tanti altri. In pratica, in tutte le nazioni del continente, diversi gruppi, per lo più da sinistra, negli ultimi anni, hanno aderito a quello che chiamano l’ideale bolivariano che sostiene tre posizioni: l’unità latinoamericana, il rifiuto dell’influenza statunitense nella regione e la sua opposizione al modello capitalista (rifiuto del neoliberismo e dei trattati di libero scambio). La strategia dell’ex presidente venezuelano, Hugo Chavez, consisteva nell’«installare un continente (fase bolivariana) e un mondo (nuova fase socialista del XXI secolo), nel quadro di una nuova potenza planetaria multipolare». La tattica è stata innovativa: combinare processi insurrezionali rivoluzionari (scioperi generali, blocchi e marce) con elezioni nella democrazia rappresentativa. Il trionfo del Movimento verso il socialismo (MAS) in Bolivia è un suo frutto: Evo Morales è arrivato al governo con entrambi i metodi, allo stesso modo in Ecuador Rafael Correa. Altri gruppi che seguono questa linea sono il Fronte Sandinista di Daniel Ortega in Nicaragua, il Fronte Farabundo Martí di Shafik Handal in El Salvador, il Movimento Sem Terra in Brasile e, in un certo senso, il Partito Rivoluzionario Democratico (PRD) di López Obrador (detto AMLO) in Messico.

Manuelita y Simòn

Quando sul cavallo Bianco

con i Generali attorno

sei entrato nel Trionfo

d’ogni fiore ben adorno

come colta da follia

oh mio bel Libertador

dal balcone sulla via

t’ho tirato rose e allor.

Hai alzato il blu cappello

il mio volto n’è arrossito

col sorriso tuo più bello

sei entrato proprio a Quito.

Mi trovavo lì per caso

il mio sposo era in Perù

non so se ti sei persuaso

che casuale poi non fù.

Che magia fu quella sera

quando dal Governatore

nella bella atmosfera

da señora de la flore,

mi hai intrigato coi poeti

col tuo passo ballerino

nella danza stretti stretti

con la guancia assai vicino.

Non contava mio marito

mi fu imposto senza amore

vecchio freddo e rattrappito

non fu fatto pel mio cuore.

Sono la tuaamable loca’

Simòn ardo follemente

un tuo sguardo già m’infuoca

non m’importa della gente.

Ché t’ho amato ancora prima

pel tuo sogno libertario

io nutrivo grande stima

lo scrivevo anche [p1] nel diario.

Oramai son fatta amante

d’amor puro ed immortale

nella luce più brillante

sacra sposa spirituale.

Anche quando lì a Paità

sola inferma osservo il mare

la mia anima ancor bailà

e ci guarda volteggiare.

Nella strada del ritorno

verso quella dimensione

è arrivato il grande giorno

dove avviene l’ascensione.

Dove siete anima mia?

Quale parte della morte?

Nella Luce tua io sia

come Alcione stessa sorte.

Ora salgo su una stella

metto un piede sulla Luna

come una gentil donzella

io t’incontro per fortuna.

Qui riuniti oltre il tempo

soli mano nella mano

noi lasciamo ogni tormento

di quel mondo vacuo e vano.

E diciamo ai benpensanti

di ogni strada e di ogni via

noi saremo sempre amanti

che vi piaccia o sia follia!

Patrizia Boi

 

PATRIZIA BOI

Ha pubblicato Romanzi, Racconti, Fiabe, Saggi e Biografie e collabora anche con varie riviste, per le quali scrive articoli, recensioni e interviste.

A fine 2022 è uscito, LegenΔe di Piante, Nostra Protezione ed Equilibrio in Terra, scritto in collaborazione con l’Erborista Lidia Costa, pubblicato da Bertoni Editore.

Nel 2019, Patrizia ha pubblicato il Romanzo-Fiaba Mammoy – di Catorchio, Cletus e altre avventure con la Casa Editrice “dei Merangoli”, illustrato dal genovese Niccolò Pizzorno, un viaggio dell’eroe guidato dalla magia dei “Semplici”, le Erbe Aromatiche magiche che crescono nel contesto di una Sardegna arcaica.

Nel 2017 ha pubblicato con la Casa Editrice dei Merangoli, il Saggio Ingegneria Elevato n – Ingegneria del Futuro o Futuro dell’Ingegneria?, scritto a quattro mani con suo fratello Maurizio Boi, un volume di 592 pagine, con 150 Immagini Colore/BN del fotografo Sergio Pessolano.

Autrice del romanzo Donne allo specchio pubblicato nel 2006 da L’Autore Libri Firenze e della raccolta di fiabe Storie di Magia illustrato da Maria Cristina Lo Cascio e pubblicato nel 2011 dalla Happy Art Edizioni di Milano.

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