22 Dicembre 2025
2026 nella regione: Brasile e Colombia tra urne, sovranità e offensiva dell’ultradestra
Brasile e Colombia al voto in un continente con pochi governi progressisti: in gioco non solo presidenti, ma sovranità, modello sociale e spazio di manovra nel mondo multipolare.

Di Marlene Madalena Pozzan Foschiera
Il 2026 sarà un anno decisivo in America Latina: Brasile e Colombia andranno alle urne, in un contesto in cui la disputa non è soltanto elettorale. È una contesa su sovranità, modello di sviluppo, diritti sociali e controllo delle risorse, sotto una pressione crescente di élite interne, apparati mediatici, potere finanziario e guerra culturale.
In Colombia, il governo progressista di Gustavo Petro opera in un ambiente ostile, tra polarizzazione e resistenze istituzionali. La regione conosce bene anche il lawfare: l’uso selettivo di strumenti giudiziari e scandali come arma politica per logorare e, quando possibile, escludere avversari dal gioco democratico.
Il Brasile è il grande perno. E qui serve nominare la posta in gioco: non si tratta soltanto di un paese “grande”, ma di un paese che oggi è guidato da Luiz Inácio Lula da Silva, una leadership popolare con peso internazionale — per la difesa del multilateralismo, la lotta contro la fame e la ricerca di vie diplomatiche per la pace. Lula e ciò che rappresenta (politiche sociali, integrazione regionale, autonomia estera) sono un bersaglio naturale di una ultradestra globale che preferirebbe un Brasile “disciplinato”: dipendente, coloniale, pronto a consegnare sovranità e ricchezze.
Lo scenario regionale è cambiato molto: oggi sono meno i governi progressisti con capacità di incidere — Brasile, Colombia, Messico, Uruguay, Honduras, Guatemala — oltre a Cuba e Venezuela, sottoposte a blocchi e assedio permanente. Allo stesso tempo, l’ultradestra ha conquistato nuove piattaforme: e la recente vittoria di Kast in Cile è un segnale di quanto velocemente la paura sociale possa trasformarsi in consenso autoritario.
Sul fondo c’è la dinamica globale: con Donald Trump di nuovo alla Casa Bianca, la politica estera tende a trattare l’America Latina come area prioritaria di pressione strategica, soprattutto davanti alla crescita della presenza cinese nella regione. Non è necessario idealizzare nessuno: potenze perseguono interessi. Ma per i paesi latinoamericani la multipolarità significa, prima di tutto, una cosa concreta: margine di negoziazione, alternative economiche e spazio di manovra.
È qui che sovranità smette di essere slogan e diventa domanda pratica: chi decide il modello di sviluppo, per chi, e a quale prezzo? Per questo 2026 tende a essere duro: perché la contesa non è solo “chi governa”, ma per chi si governa. La risposta non può essere solo elettorale. Deve essere sociale: organizzazione popolare, sindacati vivi, comunicazione capillare e agenda concreta su lavoro, reddito, diritti — senza consegnare all’ultradestra il monopolio del tema della sicurezza.
Il monito è chiaro: quando la paura diventa la lingua dominante, la democrazia sociale perde terreno. Nel 2026, Brasile e Colombia saranno prova decisiva — e il loro risultato può ridisegnare il respiro del campo progressista latinoamericano per molti anni.

