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Società

Storia di Anna, avvocato, con una figlia ai domiciliari* (Prima parte)

La vicenda paradigmatica di una donna che dimostra da un lato l’importanza di combattere per ciò in cui si crede, dall’altro l’impossibilità di una madre di restare al di fuori delle scelte di una figlia.

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di Rosamaria Fumarola

Mi domando spesso se i miei amici, quelli con i quali ho studiato legge e sognato un posto al sole, capirebbero la mia condizione. In genere mi rispondo che no, non capirebbero, che la vedrebbero come troppo distante dalla propria ed è questa la ragione per la quale non ho mai cercato il loro sostegno. 

Così io, avvocato schierato da sempre a  sostegno delle donne, cresciuta in una delle famiglie della cosiddetta “borghesia illuminata” della città, divido le mura della mia casa con una pregiudicata. 

Come e perché mia figlia abbia preferito vivere all’interno di un clan malavitoso da sempre dedito allo spaccio di sostanze stupefacenti, devo confessare che in qualche modo mi è chiaro.

Una ventina di anni fa ereditai da mia madre un bell’appartamento nei pressi del tribunale cittadino. Decisi di trasferirvi là il mio studio e la mia abitazione. Maria era poco più che una bambina della quale mi occupavo però da sola, avendo suo padre deciso di non interessarsene né da un punto di vista economico, né affettivo. La casa era grande, pensai che quando la bimba sarebbe cresciuta avrebbe avuto a sua disposizione spazio a sufficienza per ogni cosa desiderasse fare, estendendosi l’appartamento per l’intero ultimo piano del palazzo. Il piano sottostante il nostro era invece abitato da studenti e da una coppia giovanissima con già tre figli. Lei si occupava delle pulizie di molti uffici nelle vicinanze e lui era impiegato come meccanico nell’autofficina del suocero. Era stato proprio il padre della sposa a regalare alla coppia la casa. Certo non rientravano esattamente nei canoni di ciò che viene definito “essere persone ben educate” anzi, erano soliti esprimersi solo attraverso il turpiloquio, ma con me e Maria si mostravano gentili e rispettosi e comunque non li incontravamo mai. Fu così per un lungo periodo, durato circa una quindicina d’anni, nel quale la giovane sposa era la cordiale signora che periodicamente mi aiutava nelle pulizie di stagione ed a cui sia Maria che io eravamo sinceramente affezionate e con tutta evidenza ricambiate. In quegli anni il rapporto con mia figlia era già difficile ma continuavano ancora ad apparire ed essere una famiglia. 

Un giorno di non molti anni fa, ascoltando il TG regionale fummo colpite dalla notizia dell’arresto di una trentina di persone che nel quartiere nel quale vivevamo si dedicavano allo spaccio di droga. Trasalimmo quando ci apparve la signora del piano di sotto mentre veniva ammanettata e tradotta in carcere, assieme al marito ed ai tre figli. Il servizio chiariva che facevano parte di una rete criminale diramata in molti quartieri della città. Mia figlia ed io convenimmo che dovevamo essere proprio lontane, non solo da certi giri, ma dai codici comportamentali che li governano, se non ci eravamo mai accorte delle attività criminali che si svolgevano regolarmente nel palazzo nel quale abitavamo.  Ci trovammo comunque concordi nel ritenere che C. e la sua famiglia non avevano mai fatto nulla per danneggiarci o che semplicemente ci mancasse di rispetto anzi, a dirla tutta stentavamo a credere che nelle accuse loro mosse vi fosse qualcosa di fondato. 

Non mi ci volle molto per capire che avevamo torto entrambe.

Nel frattempo  la mia carriera procedeva come non era mai accaduto prima ed in breve abbandonai lo studio all’interno dell’appartamento per uno nella via più esclusiva della città. Maria non ne fu contenta: non tollerava di rimanere in casa da sola e non le importava che avessimo più soldi se di fatto, quando tornava a casa non trovava nessuno ad aspettarla ed a prendersi cura di lei. Pretendeva le attenzioni di cui una ventenne, nonostante le amiche ed un fidanzato, ha comunque bisogno e così le poche volte in cui ci vedevamo non facevamo che litigare, nonostante fossi consapevole del fatto che in fondo mi stava chiedendo solo di essere più presente. Sapeva che non mi erano mai interessati i natali in famiglia, che anzi non credevo affatto nel concetto di famiglia proprio per il vincolo obbligatorio che genera e per i pericolosi sensi di colpa che troppo spesso ne derivano. Maria era però diversa e cercava anche ciò che per me non aveva nessun valore. Peraltro mi pareva che lo cercasse proprio per tale ragione e perciò ritenni giusto non cedere a quelli che mi sembravano ricatti. Le ero stata accanto da sola sempre, anche quando non voleva, adesso avevo l’opportunità di fare qualcosa di buono non solo per lei o per me. Fu, come prevedibile, una battaglia dura e dolorosa ed una volta ne parlai persino con C. che nel frattempo, grazie ad una serie di circostanze attenuanti aveva ottenuto di scontare parte della sua pena presso il proprio domicilio.

*La vicenda narrata in prima persona è ispirata al racconto di fatti recenti che hanno coinvolto una penalista barese.

Giornalista pubblicista, scrittrice, critica jazz, autrice e conduttrice radiofonica, giurisprudente (pentita), appassionata di storia, filosofia, letteratura e sociologia, in attesa di terminare gli studi in archeologia scrivo per diverse testate, malcelando sempre uno smodato amore per tutti i linguaggi ed i segni dell'essere umano