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A sette anni dalla sua morte, il mito Pantani sopravvive ancora

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di MICHELE DE GREGORIO

Quel sabato 14 febbraio 2004 rimarrà per sempre nella mia memoria e in quella di milioni di italiani appassionati di sport e, in particolare, ciclismo. Ricordo ancora di essere a casa quel sabato pomeriggio, con la tv accesa, mentre sistemo alcune cose di lavoro quando si interrompono le trasmissioni e viene trasmessa un’edizione straordinaria del telegiornale. La drammatica notizia irrompe come un tuono nelle case italiane: Marco Pantani, il “Pirata”, come era chiamato per via della bandana che indossava durante le corse, è stato trovato morto nella stanza D5 del residence “Le Rose” di Rimini. L’autopsia rivelò che le cause della morte: un edema polmonare e cerebrale, conseguente ad un’overdose di cocaina.





Non sono mai stato un appassionato di ciclismo ma quella notizia mi colpì profondamente. Il “Pirata”, uno degli sportivi italiani più popolari del dopoguerra, era entrato nel cuore di tutti, anche di chi il ciclismo lo seguiva poco quanto niente ed anzi, grazie alle sue imprese, si era avvicinato a questo sport. Ricordo che gli anni tra il 1996 e il 1999, sono stati quelli in cui ho seguito maggiormente il Giro d’Italia e Tour de France perché c’era lui, un ragazzo di 172 cm, un po’ buffo con la sua testa completamente calva e lucida e le orecchie a sventola, ma che sulle montagne diventava un gigante inarrivabile, in grado, con i suoi scatti e i suoi arrivi in solitaria, di destare delle emozioni indescrivibili. Guardavo le tappe di montagna nell’attesa del colpo da maestro di Marco Pantani, dell’impresa che lo lanciasse da solo sulle cime più impervie e per il Pirata, che si trattasse di Alpi o di Pirenei, non c’era differenza, le domava comunque alzandosi sui pedali ed infliggendo distacchi enormi ai suoi avversari.

Per molti è stato il più grande scalatore di tutti i tempi, per qualcuno il migliore in assoluto. A tutt’oggi è l’ultimo italiano ad aver vinto il Tour de France e l’ultimo cliclista in assoluto ad aver fatto l’accoppiata Giro-Tour nello stesso anno. La sua carriera è stata costellata da infortuni ed incidenti, in qualche caso anche gravi, come quando fu investito da una jeep che viaggiava contromano durante la Milano-Torino del 1995. La forza di volontà del campione gli ha sempre consentito di rialzarsi e tornare a correre e vincere, tranne quell’ultima volta, quel 5 giugno del 1999, quando a metterlo ko, psicologicamente e non fisicamente, fu la squalifica ed esclusione da un Giro d’Italia che, a due tappe dalla fine, era saldamente nel sue mani. Quella mattina gli vengono riscontrati valori di ematocrito nel sangue superiori al limite consentito e l’esclusione dalla corsa è inevitabile, anche se nella sua carriera non è mai risultato positivo a nessun controllo antidoping.

« Mi sono rialzato dopo tanti infortuni e sono tornato a correre. Questa volta però abbiamo toccato il fondo. Rialzarsi sarà per me molto difficile. »

Queste furono le sue parole a caldo, dopo avere rotto per la rabbia anche un vetro dell’albergo che ospitava i corridori. Aveva ragione Marco, da quella batosta non si è più rialzato, anzi, è sprofondato in una depressione irreversibile che l’ha portato a fare uso di cocaina sempre in misura maggiore. E’ tornato dopo un po’ alle corse ma non era più quello di un tempo e non ha mai più raggiunto la forma ed i risultati degli anni d’oro.

La sua carriera comincia presto e già tra i dilettanti mostra un talento e delle doti da scalatore ineguagliabili; dal 1990 al 1992 si classifica terzo, secondo e primo al Giro d’Italia dilettanti. L’esordio nei professionisti è nel 1994 con la Carrera di Davide Boifava con cui ottiene delle vittorie di tappa sia al Giro che al Tour che, per qualche anno, gli consentirono di lottare per la vittoria finale, il tutto intervallato sempre dagli incidenti e gli infortuni che lo hanno sempre perseguitato. Nel 1997 indossa per la prima volta la bandana e diventa per tutti “Il Pirata”. I suoi più grandi successi sono legati alla Mercatone Uno-Bianchi e l’anno di grazia è il 1998: vincitore del Giro d’Italia e, successivamente del Tour de France. Le vittorie hanno un che di epico e leggendario per le sue imprese sulle montagne italiane e francesi, come quando al Tour infligge più di nove minuti di distacco al suo rivale per la vittoria finale, Jan Ullrich, lanciandosi in una fuga solitaria a 50 km dal traguardo. Ancora più importante è stata la sua vittoria al Tour in quanto negli ultimi anni la gara era stata vinta sempre da passisti, abili anche nelle prove a cronometro, in cui si corre da soli contro il tempo. Il 1999 potrebbe essere un altro anno di vittorie sensazionali ma arriva la tappa di Madonna di Campiglio al Giro, quel 5 giugno maledetto, e Marco non la disputerà perché sarà squalificato proprio quella mattina. Più tardi vennero fuori anche voci di un complotto ai suoi danni ma si può dire che la sua carriera si conclude lì.

Da allora molte persone si sono allontanate da lui, lasciandolo solo. Gli stessi fans lo insultano delusi da quel risultato dei controlli ed il “Pirata” non è più lo stesso, si ricovera anche in una clinica del Nord Italia specializzata nella cura della depressione e della dipendenza da alcool. Si isola sempre di più ed aumenta il suo consumo di cocaina fino a quel drammatico giorno di San Valentino del 2004 quando una stanza di albergo è la cornice della tragedia di un campione vero.

Dal 2004 il Giro d’Italia assegna ogni anno ad una salita (la più “rappresentativa”) il titolo “Montagna Pantani”, onore concesso fino allora solo al Campionissimo Fausto Coppi, con la “Cima Coppi” (il passo più alto percorso dal Giro).

A me piace ricordarlo, a quasi sette anni esatti dalla prematura scomparsa, mentre vola sulle montagne, quasi avesse davvero le ali e al traguardo con il suo sorriso genuino ed ingenuo, mentre festeggiava con “gli amici che non erano amici”, come scrivono gli Stadio in una bellissima canzone a lui dedicata.

Ciao Pirata!

Informatico, sindacalista, appassionato di politica e sportivo