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“La sera di una Pasqua in quarantena”

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di ROSAMARIA FUMAROLA

Qualche giorno fa abbiamo celebrato nelle nostre case la Pasqua.

Una Pasqua inconsueta a causa della quarantena a cui ci ha costretto il Corona virus, anche se non credo che le nostre tavole siano state poi tanto diverse da come apparivano gli scorsi anni. Ovviamente quando scrivo “nostre” sono ben consapevole di quali siano le persone a cui mi riferisco e del cui novero pure io sento di far parte. Le uniche uscite che in questi giorni ci sono concesse sono quelle strettamente necessarie e tra queste ovviamente quelle per portar fuori i nostri cani e dunque, a parte quelle per fare la spesa e per andare in farmacia, io esco da casa tre volte al giorno, per consentire a Roy, il mio cane, di fare i suoi bisogni, sia pure entro lo spazio limitato di una piccola passeggiata attorno all’isolato. E così è stato anche il giorno di Pasqua. Nei giorni precedenti però, mentre andavo a far la spesa, mi aveva molto colpito una ragazza che nei pressi della stazione, dove appunto io abito, sul far della sera preparava un giaciglio con lenzuola e coperte all’aperto, per strada. È quella una zona nella quale non è difficile imbattersi in persone che cercano un ricovero di fortuna, senzatetto il più delle volte maschi, intenti a cercare il sonno sopra i cartoni con indosso vecchi cappotti e coperte, spesso aiutati dall’alcool a trovare il coraggio di rimanere lì così, alla mercé di tutti. Non ci si abitua mai a vederli in quella condizione ed infatti tutte le volte in cui mi capita di incontrarli, facendomi sempre le stesse domande, mi dico che una gran parte della loro capacità di resistere deve stare forse in ciò che bevono, che pare renderli assenti, estranei, né in stato di veglia ma nemmeno dormienti. Solo così credo, sia possibile sopportare l’idea di vivere, laddove gli altri durante il giorno sono solo di passaggio. Questi uomini si somigliano tutti, almeno nell’aspetto. L’incontro invece della ragazza che preparava il giaciglio con lenzuola e coperte, un paio di giorni prima della domenica di Pasqua è stato qualcosa di evidentemente diverso. In primo luogo non si trattava di un uomo ma di una giovane donna, con i capelli di media lunghezza, che indossava una giacca e non appariva come una persona avvezza a dormire per strada. Non sono riuscita a guardarla in volto ma le lenzuola erano di un arancione chiaro ed apparivano pulite, inoltre mentre tutti i senzatetto tendono a rintanarsi, a creare cioè una nicchia che li protegga, questa giovane aveva sistemato le lenzuola stendendole a terra per tutta la loro lunghezza e lo faceva con cura, presente a sé stessa, come se si trovasse nella propria stanza. Ovviamente non mi sfugge che chiunque da un giorno all’altro possa diventare clochard, a causa di una crisi economica che colpisce tutti ma distrugge quelli che già vivono delle fragilità. Una di queste può essere la tossicodipendenza, ma la ragazza in questione non sembrava gravata da questa problematica, proprio perché nulla in lei appariva trasandato: un tossicomane è attento solo alla propria mania, solo per essa ha cura ed invece la giovane pareva dedicare attenzione a tutto quello che stava facendo. Ho poi raggiunto il supermercato, comprato il necessario ed infine sono tornata a casa ed alla ragazza incontrata non ho più pensato, almeno fino alla sera della domenica di Pasqua e ho dovuto portare Roy a fare la sua passeggiatina. Le strade erano completamente deserte ed io seguivo il cane che indugiava più del solito fino a quando non si è fermato ed io mi sono guardata intorno e così, ad una cinquantina di metri da me, ho visto la ragazza di pochi giorni prima, stesa sul suo giaciglio, che sembrava dormire. Tra lei e me lo spazio vuoto. Una ragazza, forse di poco più grande delle tante a cui ho insegnato  il greco o la storia dell’arte in case calde e confortevoli, dormiva sull’asfalto. Ho fatto pochi passi per andarle incontro. C’eravamo solo lei ed io: una donna adulta abituata ad avere a che fare con i ragazzi ed abituata per questo a farsi pagare ed una ragazza stesa a terra a dormire. Il tempo si è fermato. Lei non sapeva che avrei potuto farle una carezza, raccontarle una stupidaggine per farla sorridere, che c’era vicino a lei un mondo che poteva darle qualcosa, che doveva darle qualcosa. Ma lei lo.aveva chiesto? Non lo sapevo. Vedevo quel corpo in cui scorreva la forza della vita che tutto può essere e diventare, sguarnito della patente che siamo abituati a dare a chi abbiamo di fronte, patente che serve più a noi per sapere come dobbiamo comportarci nei suoi confronti che a lui, patente che lo inserisce in un contesto nel quale gode di alcuni diritti che tutti tacitamente riconosciamo. La ragazza invece era sola, nessuna rete le garantiva protezione affettiva, sociale, nessuna rete le riconosceva una patente e questo bastava a tagliarla fuori da qualunque consorzio nonostante la sua età. Qualcosa nelle regole che ci governano preferisce e subdolamente, trascurare un dato che è quello che ci proviene dalla vita in quanto fatto naturale e non sociale, per prediligere il profitto che una rete assicura gli uni agli altri: sei integrato se puoi darmi qualcosa e solo in questo caso io ti do qualcosa, anche se sei poco più che un bambino.

Non mi sono avvicinata alla ragazza, non le ho parlato e questo perché per larga parte della mia esistenza ho ritenuto doveroso fare e dare ad altri quanto loro mancava senza però riuscire ad aiutarli davvero, a migliorare la propria condizione, a renderli autonomi, chiedendo a me stessa troppo e trascurando di percorrere un’altra strada, la mia, che qualcosa pure meritava. Credo infatti che quando si decide di aiutare qualcuno, bisogna essere consapevoli di quali siano le risorse di cui si dispone, perché non ha senso nemmeno in natura che se qualcuno possa salvarsi non lo faccia solo perché non riesce a salvare anche l’altro. Ma queste sono vicende personali che non a tutti interessano, uscendo dalle quali però ritengo doveroso concludere con una domanda  che riguarda il rapporto che riusciamo ad instaurare con chi è fuori dalla competizione che la società ci impone: ignorarne l’ esistenza, rimanere impermeabili alle loro storie, nasce da un’autentica indifferenza nei confronti delle loro vite o trae origine dall’intimo, magari inconscio convincimento che siamo più simili ad essi di quanto non appaia, che tenerli lontani ci aiuta non a dimenticarli, ma a non pensare a come anche noi infondo siamo o potremmo essere?


Fine modulo

Giornalista pubblicista, scrittrice, critica jazz, autrice e conduttrice radiofonica, giurisprudente (pentita), appassionata di storia, filosofia, letteratura e sociologia, in attesa di terminare gli studi in archeologia scrivo per diverse testate, malcelando sempre uno smodato amore per tutti i linguaggi ed i segni dell'essere umano