Esteri
La Mentalità Coloniale vigente in America Latina
Colonialismo, capitalismo e patriarcato nella storia e nei femminismi di Abya Yala
Di Maddalena Celano
La Mentalità Coloniale vigente in America Latina
Colonialismo, capitalismo e patriarcato nella storia e nei femminismi di Abya Yala
Colonialismo, capitalismo, patriarcato sono elementi del dominio. La loro presenza nella storia di Abya Yala[1], è ciò che si esamina, evidenziando l’interazione tra le zone visibili (la cultura dominante) e non visibili (la cultura subalterna) che le loro azioni producono e le posizioni – egemoniche e non – che gli attori politici vi occupano. Si distinguono così le resistenze ornamentali (ovvero le pseudo lotte fintamente resistenziali) o adattate alla modalità cognitiva dominante e le forme di resistenza radicali che dal basso verso l’alto smantellano detta modalità.
Introduzione
Insieme, colonialismo, capitalismo e patriarcato hanno imposto un unico modo di essere al mondo, con pratiche che tentano di annientare i popoli, le comunità e le conoscenze che non si adattano a quel modo di essere. Hanno così prodotto aree visibili (la cultura e la mentalità dominante), dove prende piede questo modo “monoculturale” (o pensiero unico) di comprendere il mondo e le aree non visibili in cui vivono coloro che non si conformano a quel senso comune. L’interazione tra queste zone (aree visibili e non visibili) produce soggetti politici in posizioni dominanti e non dominanti. Quelli dominanti sono tali, perché si adattano alle modalità cognitive che sostengono il funzionamento degli assi colonialisti, capitalisti e patriarcali. I non dominanti affrontano la monocultura con un flusso che, dal basso verso l’alto, rafforzano la coalizione dei vari movimenti complessi (idee o pratiche alternative). La divisione tra zone visibili e non visibili impedisce il contatto tra coloro che abitano entrambe le zone grigie, tuttavia, questi incontri si verificano, consentendo ai soggetti politici dominanti e non dominanti di muoversi indiscriminatamente attraverso entrambe le zone.
Questo transito consente relazioni complesse che attualizzano la colonia, ampliano i limiti con cui ha ristretto la comprensione della realtà. In questo quadro – in cui risplendono colonialismo, capitalismo e patriarcato – sollevo l’importanza del femminismo e di un flusso che dal basso verso l’alto ha prodotto apprendimenti e trasformazioni inestimabili. Questo per distinguere i fenomeni delle resistenze ornamentali, dal confronto radicale che rispettivamente si adattano o disobbediscono alla gerarchia epistemica che abita la modalità cognitiva dominante. La mia idea è quella di mettere in gioco un carattere genealogico per distinguere come il dominio coloniale, capitalista e patriarcale si è rafforzato e quali risposte sono state fornite alle sfide che esso richiede.
Colonialismo, capitalismo, patriarcato
Parlare di dominio significa parlare dell’azione intrecciata di colonialismo, capitalismo e patriarcato. Questi assi, attraverso un complesso insieme di strategie e pratiche, preservano l’imposizione di un “unico senso comune”, di una sola modalità di percepire e vivere la vita, dividendo la realtà in zone visibili e non visibili. Nel visibile resta tutto ciò che è legittimato dagli immaginari coloniali dominanti; nel non visibile, tutto ciò che resiste al pensiero unico dominante. A questo punto sottolineo che le zone visibili e quelle non visibili non sono omogenee e che i loro contatti producono soggetti politici con posizioni diverse, che pongono alcuni sul lato dominante e altri su quello non dominante. Questi soggetti abitano entrambe le aree in modo intercambiabile e dalle loro interazioni si osserva una tendenza ad escludere le stesse voci e le stesse conoscenze. Tuttavia, queste interazioni contengono processi importanti che tentano di rompere con i limiti monoculturali dell’ordine dominante. Coloro che si adattano sono il prodotto di incontri in cui sopravvivono relazioni coloniali gerarchiche. Questi inibiscono altri modi di essere e di stare al mondo, che coincide con i corpi che il progetto coloniale ha scartato (i corpi di coloro che non appartengono alla “razza” caucasica bianca), cioè, sebbene si confrontino con l’ordine dominante, si sottomettono ai suoi diktat (ovvero ad una cultura accumulativa, mercantile, accaparratrice, individualistica, etc.), il che indebolisce la loro resistenza. Questi diktat sono occidentali, per la stessa ragione, lottare adottando questa cultura produce resistenze ornamentali o cosmetiche, poiché si esprimono “come adattamento della cultura e del sapere europei”. Quanto si omette che “l’istituzionalizzazione del monoculturalismo ci ha costretti a comunicare gli uni con gli altri nella modalità cognitiva dominante” si diluiscono i confini che separano le aree visibili da quelle non visibili; che mettono in discussione gli stati attuali sovrapponendo differenze; che sommano e non disaggregano il funzionamento del colonialismo, del capitalismo e del patriarcato. I saperi subalterni smantellando la modalità cognitiva che fa sopravvivere la monocultura dominante, sono considerati come confronti radicali, cioè vanno alle cause dei problemi e non esclusivamente alle conseguenze degli stessi. Quando si analizza la rete di potere che estende l’ordine dominante, non va omesso che i processi di adattamento e di confronto radicale si intreccino dialetticamente. Così, nel mezzo degli incontri tra differenze complesse, si sviluppano specifiche strategie di contenimento e costrizione, che preservano la cultura occidentale come standard di misurazione universale. Vale la pena notare che l’intreccio di questi tre assi forma il dominio che si estende in direzioni diverse – sociale, politico, economico e di genere – che producono un soggetto politico legittimo o meno, a seconda del suo adattamento allo status quo (e allo stile di vita dominante). La frammentazione delle lotte e della “percezioni” è vitale per preservare la posizione dominante. Il pensiero del conquistatore si caratterizza quindi per il suo binarismo. Rilevarlo serve a osservare come l’ordine dominante gestisca la soggettività collettiva, attraverso pratiche che organizzano la vita e con essa la suddivisione del lavoro e dei micropoteri. Pertanto, alcune persone, le loro comunità, i loro territori, le loro terre e i loro sistemi di credenze che organizzano la loro cultura sono compresi e valutati in base al loro allineamento al pensiero colonizzatore, questione che naturalizza il potere e definisce il carattere ornamentale o radicale della loro resistenza. Ebbene, se i suddetti assi organizzano il dominio, allora vale la pena fare una revisione (generale) di ciascuno di essi riguardo alle loro caratteristiche, portata e intersezioni. In primo luogo, riporto la nozione di colonialismo[2] che si riferisce al dominio di un territorio attraverso la sua effettiva occupazione. Questa occupazione si traduce nell’imposizione della cultura e delle leggi del colonizzatore, che cancella la cultura e le leggi di coloro che sono colonizzati. Quanto indicato supporta la definizione di esso come un sistema politico ed economico volto al controllo e allo sfruttamento delle risorse territoriali – materiali e immateriali – di cui beneficia solo il colonizzatore. Ciò che viene indicato è ciò che accadde nella conquista di Abya Yala. La sua portata è ancora presente, ma è stata diluita a causa di confusioni che hanno fatto sì che molte delle lotte sollevate nel corso della storia del nostro continente non la contemplassero. La nozione di ornamentalità (o “battaglie” cosmetiche), già menzionata, si basa su un costante adattamento dei soggetti politici ai costi e ai valori del dominio occidentale. Basti pensare che gli stessi soggetti che furono violentemente oppressi dalla colonia, sono gli stessi soggetti che oggi continuano ad essere violentemente oppressi dai moderni progetti di pseudo-uguaglianza, pseudo-giustizia e sviluppo. Una delle principali confusioni è quella secondo cui non si noterebbe la differenza tra il colonialismo storico e il colonialismo che sperimentiamo fino ad oggi e che rappresenta la sopravvivenza della sua prospettiva culturale. Il primo si riduce a un territorio che estende il suo dominio oltre i suoi confini, sia attraverso l’annessione di territori, sia attraverso l’influenza su di essi, questione che ha portato a limitare la nozione di liberazione nei processi di indipendenza. Pertanto nella nostra storia è prevalsa l’idea che il colonialismo finisse con l’indipendenza e la fondazione di stati/nazioni moderni. Non è stato così, poiché il progetto di libertà e giustizia sostenuto dalle repubbliche indipendenti è emerso mentre era ancora in corso la devastazione dei territori indigeni, il che rivela che per tale progetto quei corpi, quei saperi e quei territori non avevano importanza. Il colonialismo non si è concluso con l’indipendenza, ma ha piuttosto cambiato forma. Ciò che pose fine ai processi di indipendenza fu una forma specifica di colonialismo, il colonialismo storico caratterizzato dall’occupazione territoriale da parte di una potenza straniera. Da allora, il colonialismo ha cambiato forma, ma è continuato fino ai giorni nostri e talvolta è stato violento quanto il colonialismo storico.Questa nuova forma di colonialismo è direttamente collegata alla nozione di capitalismo neoliberista. Di fatto, il suo attacco si manifesta come imposizione della cultura neoliberista, attraverso l’estrattivismo, la sopravvivenza di un modello economico che per sostenersi ha richiesto l’omicidio e l’incarcerazione di vari leader indigeni e afrodiscendenti, donne e uomini che hanno affrontato e resistito alla devastazione dei loro territori. La riattualizzazione della mortale violenza coloniale ricade sugli stessi corpi che non hanno importanza per la colonia. Il capitalismo è il modello di produttività imposto con la conquista dell’America Latina e che da quel momento in poi è diventato globale. Ciò influenzerà i rapporti commerciali tra Abya Yala e il nord conquistatore, che sfrutterà, a basso costo economico, ma con un alto costo di vite umane, le materie prime dei territori colonizzati. Quanto descritto, è bene ribadirlo, non culminò con l’indipendenza, perché come avvertì José Carlos Mariátegui (1949), il sistema economico che la conquista installò nel continente latino-americano si sviluppò in modo tale che ne emersero repubbliche indipendenti completamente determinate da essa e, quindi, seguirono le condizioni economiche imposte dal conquistatore. Questo “ornamento” della liberazione e dell’indipendenza si estende fino ai giorni nostri ed è stato al centro delle lotte capitaliste travestite come conflittuali, che dal mio punto di vista non sono state tali, poiché non hanno mai messo in discussione il colonialismo e il patriarcato come piattaforme per la loro riattualizzazione. A questo proposito, Silvia Federici contribuisce alla comprensione di quanto sottolineo, quando riferisce che ad Abya Yala operavano logiche cooperative e collaborative che furono scartate dalla modernità coloniale. Queste logiche si articolavano in base al rapporto che l’uomo instaurava con la terra. Si sostiene che la privatizzazione fondiaria, riconosce, in epoca feudale, i vantaggi di questo rapporto, mentre: proteggeva gli agricoltori dal fallimento del raccolto, a causa del numero di appezzamenti a cui aveva accesso una famiglia; consentiva inoltre una pianificazione del lavoro gestibile (poiché ogni appezzamento richiedeva attenzione in momenti diversi); Promuoveva uno stile di vita democratico, costruito sulla base dell’autogoverno e dell’autosufficienza, poiché tutte le decisioni – quando piantare o raccogliere, quando prosciugare le paludi, quanti animali erano ammessi nei terreni comuni – venivano prese dal governo, ovvero contadini in assemblea.[3] Il modello fondiario, invece, mercifica la terra, che in America fu sostenuto dalle bolle alessandrine del 1493. Queste rappresentarono una pietra miliare nel processo di mercificazione che esso instaurò: un processo di manifattura dall’alto, nella misura in cui la proprietà delle terre scoperte o non scoperte veniva trasferita alla Corona. In questo modo spezzarono formalmente il legame che esisteva tra le comunità precolombiane e la natura. Vale la pena precisare che le bolle testimoniano il dominio concesso dal papa ai re cattolici. Questa donazione implicava che questi ultimi si assumessero la responsabilità di evangelizzare detti territori. Affermo poi, evidenziando solo un aspetto, che fin dalla conquista il rapporto di tutela e rispetto della terra, è stato aggredito dagli attacchi dello sfruttamento capitalistico legato al processo evangelico volto a sradicare la barbarie di un sapere arretrato rispetto al sapere imperiale. Affinché ciò funzionasse, sono state sviluppate specifiche strategie di disimpegno (diffondere una cultura individualistica di disimpegno politico) per infondere l’ accettazone dello status quo. Ad esempio, qualsiasi esaltazione dei meriti del possesso fondiario comunitario viene liquidata come “nostalgia del passato”, partendo dal presupposto che le forme agrarie comunitarie sono retrograde e inefficienti e che coloro che le difendono sono colpevoli di un eccessivo attaccamento alla tradizione. Ciò che viene indicato inscrive il mondo indigeno e contadino in un “Altro Mondo” senza progresso, per cui i loro modi di intendere la vita devono essere indirizzati verso il disuso. Questa inferiorizzazione, così come la rottura del legame comunità umana/terra, non fa altro che diminuire il valore dato alle loro culture, producendole come arretratezza, una questione che continua ad abitare varie resistenze che aderiscono alla modalità cognitiva dominante. Mi spiego meglio: il capitalismo esalta e pone la proprietà privata, l’individualismo, il mercato in una zona visibile, in una zona non visibile colloca il collettivismo e il comunitarismo. Questi ultimi aspetti sono stati ripresi da varie proposte anticapitaliste, tuttavia, il colonialismo non li percepisce, poiché in queste costruzioni il soggetto politico che appare non è il soggetto che ha cancellato la colonia. Questa esclusione stabilisce un legame tra queste lotte e alcuni dei pilastri che sostengono il dominio, indebolendo la radicalità della loro stessa resistenza. Questi, dunque, possono essere anticapitalisti, ma si concentrano – come spiego – su un soggetto politico che non ammette nel suo immaginario altri soggetti cancellati dalla colonia. In questo senso, la lotta anticapitalista se è frammentata e fdrammentaria, racchiude in sé la modalità cognitiva dominante, il che dimostra che si può stare sul lato non dominante, ma operare con la modalità cognitiva dominante. Questo perché si naturalizza la relazione coercitiva tra modernità e colonialità, cioè le loro risposte sono definite in termini post-moderni, nonostante il fatto che non esistano più soluzioni post-moderne per problemi moderni. Emerge così che le posizioni dei soggetti politici sono complesse e mobili, perché il confronto con il potere dominante, da parte di alcuni dominati, normalizza, ridonda e rafforza il fatto che alcuni organismi e le loro lotte si re-inscrivono, più e più volte, in ambiti non visibili agli occhi dominanti. In questo modo e nel quadro del capitalismo – che si estende agli altri assi – possiamo stare dalla parte non dominante e insistere sugli stessi termini che la modalità cognitiva dominante ha scartato. Nel caso del capitalismo, se i corpi che non contano sono gli stessi che la colonia ha violato e le stesse organizzazioni “anti-capitaliste” continuino ad ignorare questi corpi, si intravede il nesso tra una lotta capitalista necessaria ma cieca di fronte alla sopravvivenza del colonialismo, quindi si opera solo nei termini che questo lascia visibile (ovvero: diventa una lotta parziale e frammentata).
Riassumendo: il capitalismo è inerente al colonialismo, e il colonialismo è inerente al capitalismo, quindi supponendo che il colonialismo finisca, senza dichiarare il suo intreccio con il capitalismo, causerebbe la rinascita dalle sue ceneri dei vecchi rapporti di potere. L’esercizio frammentario che sovrappone il capitalismo al colonialismo o viceversa, nasconde che entrambi facciano parte della stessa trama e che la preminenza dell’uno produce la periferia dell’altro, cioè da un lato c’è confronto e dall’altro un adattamento che “ornamentalizza” la loro resistenza. Questo perché sono coerenti con la conoscenza occidentale che cattura l’immaginazione politica posizionando immagini installate dalla colonia che precedono i suoi soggetti politici. In altre parole: il soggetto politico della modalità cognitiva dominante è il soggetto moderno la cui esistenza produce attivamente l’invisibilità del soggetto coloniale. Quanto appena sottolineato mi permette di evidenziare l’importanza della conoscenza scientifica. Ciò ha reso invisibili altre forme di sapere – popolare, contadino, indigeno, afro-discendente – non adatte ai suoi termini e che vengono quindi attivamente costruite come rifiuti, perché in esse non esiste una vera conoscenza; Ci sono credenze, opinioni, magia, idolatria, comprensioni intuitive o soggettive, che, nella maggior parte dei casi, potrebbero diventare oggetti o materie prime per la ricerca scientifica. La delegittimazione di questo sapere è la delegittimazione di questi soggetti come soggetti politici.
Se a ciò aggiungo che il sistema di pensiero del conquistatore coinvolgeva i rapporti di potere tra donne e uomini, la comprensione del dominio si amplia. A questo punto metto in gioco la nozione di patriarcato. Patriarcato significa letteralmente “governo dei padri”. Nel corso della storia è servito a designare un tipo di organizzazione sociale in cui l’uomo ha il privilegio di prendere decisioni. In altre parole: sono i loro termini che organizzano il mondo, una questione che spiega la situazione di oppressione delle donne e anche le chiavi della loro liberazione. Gerda Lerner (1986) la definisce come l’espressione e l’istituzionalizzazione del dominio maschile sulle donne, sui bambini nella famiglia, e l’estensione di tale dominio alla società in generale. Questa scena mi riconnette con l’ordine dominante e le resistenze ornamentali che si confrontano con esso, poiché vale la pena ricordare che da un lato possiamo confrontarci e dall’altro adattarci. In questo modo, ribadisco ancora una volta che se i termini femminili non vengono assunti come elementi importanti dei processi di trasformazione sociale, ci ritroveremo ancora una volta con lotte che possono affrontare il capitalismo, il colonialismo, anche entrambi allo stesso tempo, ma adattate al patriarcato. Pertanto, la trasformazione non raggiunge tutti i corpi, una questione che mette a nudo le sue debolezze attraverso la naturalizzazione del potere maschile che costruisce le voci femminili e i loro termini come rifiuti, essendo i loro corpi quelli che devono affrontare i costi di questa frammentazione. Quindi, ciò che espongo emerge dalla riattualizzazione della modalità cognitiva dominante che copre posizioni non dominanti che operano ed ad essa collegate. Questa modalità nasce dalla struttura che organizza questi assi, e si afferma in una prima frammentazione imposta dal sapere occidentale che impedisce di affrontare la lotta contro gli assi in questione senza dividerli. Preciso che ciò non è imputabile solo alla conoscenza scientifica, poiché questa opera anche congiuntamente, ad esempio, con la conoscenza giuridica, con lo Stato che amministra la soggettività collettiva che questa conoscenza produce, tra le altre, e che costituisce la modalità cognitiva dominante. Ciò che però sottolineo è che il loro intreccio amministrerà una trama che dall’alto permea le posizioni che occupano e le loro lotte, facendo sopravvivere la divisione tra zone visibili e non visibili. Da qui l’importanza di affermare ciò che non è visibile.
[1] Abya Yala è il nome con cui i movimenti a sostegno dei popoli indigeni delle Americhe si riferiscono al continente americano, in sostituzione della sua intitolazione ad Amerigo Vespucci scelta nel 1507 dal cartografo tedesco Martin Waldseemüller. L’espressione “Abya Yala” proviene dalla lingua parlata dai Cuna, un popolo autoctono dell’istmo di Panama, che la utilizza per denominare il territorio della regione del Darién (a cavallo tra le attuali Panama e Colombia). Tale termine è oggi universalmente in uso tra le comunità indigene per indicare la totalità del continente americano.
[2] Il colonialismo è definito come l’espansione politico-economica di uno Stato su altri territori spesso lontani al fine di creare delle colonie, spesso per sfruttarne le risorse naturali, come minerali, gas, acqua, petrolio e terreni coltivabili, e umanitarie, come la Forza lavoro, e per espandere il proprio dominio politico ed economico, magari anche per poter rivaleggiare con altri stati.
[3] Silvia Federici, Il Femminismo e la Politica dei Beni Comuni, DEO, Università degli Studi di Venezia, su internet: https://www.unive.it/pag/fileadmin/user_upload/dipartimenti/DSLCC/documenti/DEP/numeri/n20/09_20_-Federici_Politica__beni_comuni.pdf