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Femminicidi in Italia, cronache di tragedie annunciate

Supponiamo che una donna vessata decida di procedere con una denuncia formale nei confronti del suo persecutore. L’atto non verrà notificato al de cuius al momento in cui la denuncia sarà sporta, ma solo al termine delle indagini, quando cioè dovrà comparire in giudizio in qualità di indagato di fronte ad un magistrato e questo accadrà mediamente in un arco di tempo che andrà dai sei mesi ad un anno, periodo durante il quale le violenze domestiche continueranno senza incontrare argine alcuno. 

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Il 1522 è il numero verde dedicato alle donne che hanno bisogno di aiuto, perché vittime di violenza fisica o psicologica o di una qualche forma di stalking. Il numero dovrebbe rappresentare un ulteriore ausilio affinché situazioni drammatiche non sfocino nelle tragedie che hanno occupato, a buon diritto, le cronache degli ultimi anni del nostro paese ed è il medesimo da qualunque posto d’Italia si chiami. Gli addetti provvedono poi a fornire a chi ne faccia richiesta, il recapito del centro antiviolenza più vicino. 

Si tratta dunque di uno strumento ulteriore volto a sostenere le donne in difficoltà e sarebbe auspicabile ve ne fossero molti, forse molti di più e questo è tanto più evidente quanto concretamente si provi a servirsi di tali mezzi previsti dal nostro ordinamento. 

Si pensi ad esempio ad una donna vessata psicologicamente da un marito alcolista o tossicodipendente, che le ruba i danari ed i pochi ricordi preziosi raccolti in una vita intera. Non senza timori e titubanze, durante l’ennesima lite chiamerà le forze dell’ordine, che cercheranno di calmare il clima incandescente,  ascoltando anche colui il quale ne è la causa. Non conoscono di cosa sia capace e se l’aguzzino sia un abile dissimulare, così gli agenti andranno via convinti che la situazione non sia così violenta da richiedere ulteriori interventi. La donna che li ha allertati sa bene che non è così ed anzi, una volta rimasta sola col marito dovrà respingere l’ira che la sua richiesta di aiuto ha provocato. Si domanda come farebbe a sopravvivere nel caso lo dovesse denunciare. Sa infatti che prima di giungere ad una sentenza il suo aguzzino potrebbe restare nella sua stessa casa ed il rischio per la vita della donna aumenterebbe esponenzialmente. Ma sa che deve trovare una soluzione, perché qualcosa le dice che non reagire a tutta quell’ aggressività non può che far peggiorare la situazione ed ha senz’altro ragione, perché la sola cosa certa è che far finta di niente non calma un essere violento, ma al contrario ne aumenta la furia sadica e persecutoria. Dunque reagire è il solo imperativo da non perdere mai di vista. La donna comporra` finalmente il 1522 e le daranno il numero a cui far riferimento nella sua città. Chiamerà anche quello. Le risponderanno sempre donne gentili e disponibili e le fisseranno un appuntamento, (non importa se un mese dopo), durante il quale potrà esporre il suo caso. Questa donna è sola nella sua battaglia. Tutti: parenti, amici, forze dell’ordine, la scoraggiano ma lei sa che suo padre, i suoi amici, i suoi fidanzati l’hanno rispettata e proprio non le va giù di essere trattata come uno straccio, una cosa inutile e senza importanza, buona solo ad essere umiliata e maltrattata. Si reca fiduciosa all’appuntamento con l’avvocato e l’assistente sociale. L’ascoltano con pazienza e lei è contenta. Le fissano però un nuovo incontro per il mese successivo e si domanda se le persone con cui ha parlato comprendano che rischia tutti i giorni la propria incolumità e che sarebbe meglio intervenissero con maggiore celerità, ma sembrano gestire la sua vicenda come parte di un iter burocratico e niente più. La donna sospetta già che durante il nuovo incontro non ci saranno novità di sorta ed anzi, stavolta ad accoglierla non troverà giovani e volenterose assistenti, ma figure dallo sguardo cinico ed abituato a non fare sconti. Si domanderà perché essere duri e cinici con chi già soffre per le vessazioni di chi dovrebbe amarla, perché fare un mestiere che richiede empatia, se la sola cosa che si riesce a comunicare è il disinteresse e la lontananza dalla sofferenza altrui. E soprattutto si domanda perché un’intera città tributi a simili personaggi gli onori che spettano solo ai benefattori del genere umano. Il tempo perso e la svogliatezza di certe facce le raccontano che esistono i professionisti della violenza contro le donne molto più interessati alla carriera da professionisti che non a quella della lotta alla violenza di genere, un po’ come i professionisti dell’antimafia, che Sciascia aveva con largo anticipo previsto si sarebbero formati nella società siciliana e che di fatto crebbero come un partito, con un proprio potere ed  interessi da difendere dopo la morte di Falcone e Borsellino. Supponiamo dunque che la donna in questione decida di procedere con una denuncia formale nei confronti del suo persecutore. L’atto non verrà notificato al de cuius al momento in cui la denuncia sarà sporta, ma solo al termine delle indagini, quando cioè dovrà comparire in giudizio in qualità di indagato di fronte ad un magistrato e questo accadrà mediamente in un arco di tempo che andrà dai sei mesi ad un anno, periodo durante il quale le violenze domestiche continueranno senza incontrare argine alcuno.  A ciò va aggiunto che chi denuncia non è mai abbandonato dal terrore che il suo aguzzino gli incute: in qualunque momento della sua giornata la qualità della sua esistenza subisce infatti un depauperamento da ogni punto di vista, che finisce col creare una sorta di giustificazione alle aggressioni del persecutore e che soprattutto le sottrae la sola cosa che non dovrebbe mai farsi portare via e cioè la capacità di giudizio, di discernere che il male non può trovare giustificazione, né mai essere confuso con il bene. È forse questo che in molti casi impedisce la risoluzione di tali situazioni ed è questa la sottrazione più intollerabile che si possa subire e per la quale al responsabile dovrebbe essere sempre comminata la pena peggiore. Il furto della capacità di discernere equivale infatti all’alienazione di un’anima e all’abdicazione a qualunque forma di felicità. 

Chi subisce vive la sensazione costante di una paralisi, una gabbia da cui deve avere il coraggio di liberarsi, recuperando la propria autonomia umana, morale ed intellettuale. Peraltro un violento abituato a dissimulare, a maggior ragione lo farà di fronte ad un giudice, lanciando accuse infamanti nei confronti di chi ha dovuto raccogliere gli ultimi brandelli della sua esistenza, per affrontare un processo. 

Chi è abituato a dissimulare crea il vuoto attorno alla sua vittima, che non lo paralizza, né lo spaventa e che già quotidianamente può trovarsi in contesti nei quali è considerata colpevole e perciò nessuno si assumerà la responsabilità della sua tutela. 

Come farà una donna già tanto provata a trovare gli argomenti per difendersi in giudizio, per provare che le accuse che il suo persecutore le muoverà sono solo infami menzogne? Come farà se ben prima non le hanno creduto i parenti ed i vicini, se la  polizia si è mille volte mostrata titubante di fronte ad un atto formale di accusa verso un familiare, scoraggiandola apertamente dall’adire le vie legali? Come, se gli assistenti sociali le hanno chiesto di andare prima a denunciare, se cioè tutti e soprattutto chi avrebbe dovuto sostenerla, non hanno fatto che scaricarsi l’un l’altro il problema, di fatto non assumendosi quella responsabilità che la legge dello stato per cui lavorano impone loro di assumersi? 

In affari del genere, lontano dal clamore delle violenze di cui ci danno notizie i mass media, esiste e prevale una strana, rivoltante cultura del laissez faire, del non impicciarsi, del farsi i fatti propri e questo è un fenomeno trasversale nella cosiddetta società civile, che si sbraccia però in accuse aperte solo a tragedie avvenute di cui tv, internet e giornali diano notizia. La verità è che non c’è nessuno che nel nostro paese sia deriso, sfruttato, umiliato e ridotto al rango di cosa più delle donne. Nessuno in Italia è più solo di una donna che chiede aiuto. Si crede a torto che quella consuetudine che la portava a tacere di uno stupro subito sia lontana, ma le cose non stanno così. Vi sono altre, molte altre vicende e circostanze rispetto alle quali si chiede ancora alle donne di tacere e questo perché una donna deve giustificare tutto ciò che la riguarda per tutta la sua vita, perché l’onere della prova ricade ancora e sempre su di lei, per quanto di tragico le accade e per le cose belle che le possono capitare. Di tutto una donna è sempre colpevole e fino a quando non sarà alleggerita della prova di ciò che subisce, né ne sarà ritenuta responsabile, non esisterà un numero sufficiente di leggi in grado di difenderla da una società nella sostanza e più che mai ancora misogina e sessista.

Rosamaria Fumarola 

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Scrittrice, critica jazz, giurisprudente (pentita), appassionata di storia, filosofia, letteratura e sociologia, in attesa di terminare gli studi in archeologia scrivo per diverse testate, malcelando sempre uno smodato amore per tutti i linguaggi ed i segni dell'essere umano