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La donna è come un’auto: tutti la vogliono nuova e mai toccata prima

La ragionevolezza legata al valore della verginità femminile può essere letta all’interno di una cultura che esige che una donna non abbia desideri e che soprattutto non li agisca, affinché non possa essere messa mai in discussione la paternità dei suoi figli.

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“Ma Micol non discese per questo dal piedistallo di purezza e di superiorità su cui, da quando ero partito per l’esilio, l’avevo collocata.” Leggendo questa frase del celebre romanzo di Giorgio Bassani “Il giardino dei Finzi Contini”, mi sono più d’una volta chiesta cosa avrebbe pensato Micol della sua supposta purezza, se cioè lei si sarebbe definita pura. Ovviamente non sapremo mai cosa ci avrebbe risposto se glielo avessimo chiesto, ma si potrebbe ovviare a questa mancanza ponendo la stessa domanda ad una qualsiasi giovane donna che ci capiti di incontrare per strada. Probabilmente ci lascerebbe intendere che la verginità non è un valore per i giovani della sua generazione e che infondo liberarsene è stato il suo vero obiettivo. Se invece ci rivolgessimo ad un giovane della stessa età, chiedendogli una sua opinione sulla verginità della donna, non è escluso che se ne ottenga una risposta diversa, dalla quale emerga che una donna ha tanto più valore ai suoi occhi quanto meno siano i partners con cui si è accompagnata. O forse ci risponderebbe come il tizio al quale in un forum ho posto una domanda non dissimile e che mi ha risposto che per lui è come se si trattasse dell’acquisto di un’auto: chi non la desidera nuova e mai toccata prima? Ed in effetti anche io, potendo, l’auto la vorrei nuova e sarei anche disposta a provare a immaginare me stessa come un’auto, ma in effetti qualcosa non mi torna e per fortuna le cose stavano così anche quando avevo vent’anni. Se dovessi definire infatti la Rosamaria ragazza userei termini come maschiaccio o ribelle, ma in effetti né all’epoca né oggi mi sognerei di usare l’aggettivo pura: il solo valore che mi riconosco era ed è quello di essere una persona e non un orifizio della cui chiusura essere fiera. 

Il fatto stesso che trent’anni fa io potessi interrogarmi liberamente, ci dice che valori come l’illibatezza femminile non erano più cogenti nemmeno all’epoca, eppure non tutto di un certo ancestrale retaggio, persino oggi, sembra andato perduto. 

Weber ci ha insegnato che anche la consuetudine che ci appare più folle ed insensata ha sempre una sua spiegazione ragionevole nella storia di una comunità. La ragionevolezza legata al valore della verginità femminile può essere letta all’interno di una cultura che esige che una donna non abbia desideri e che soprattutto non li agisca e questo in primo luogo per assicurare al maschio la certezza della paternità della prole. In questo tipo di cultura il valore di una giovane è proporzionato al grado della sua purezza. Lo stesso principio è alla base delle mutilazioni genitali femminili ancora oggi in uso presso alcuni popoli dell’Africa e che non facciamo fatica a definire autentiche espressioni di barbarie. Tuttavia andranno a questo proposito fatte delle necessarie precisazioni. Le mutilazioni, che vanno dall’escissione alla quasi totale chiusura tramite cucitura degli organi genitali esterni della donna, sono pratiche che producono conseguenze terribili per la salute delle malcapitate oltre ad essere dolorosissime e poste in essere quasi sempre in assenza di qualsivoglia forma di anestesia. Interrogando però queste donne sul cruento rito subito nel passaggio dalla fanciullezza all’età adulta, non è certo che se ne ricavi sempre una condanna senz’appello come ci si aspetterebbe e questo perché quel rito ha consentito loro di entrare a far parte a pieno titolo della comunità, di integrarsi ad essa, di non essere marginalizzate e di essere rispettate. Dunque stiamo parlando delle regole che una comunità si dà e del consenso che il rispetto di quelle regole genera, anche quando si parla di pratiche atroci come quelle sopra menzionate. 

Tornando però alla questione dell’illibatezza femminile all’interno della cultura occidentale, si può affermare che molto è stato fatto per la liberazione della donna anche da questo tabù, che fino a non molto tempo fa era sentito come una consuetudine cogente. Sarebbe però forse più esatto dire che la sua cogenza è stata di molto annacquata ma non eliminata, per cui, se da un lato non si può più pretendere che una ragazza giunga illibata al matrimonio, dall’altro  una giovane che si accompagni con molti uomini non può che essere una poco di buono. In questo caso riemerge più forte di prima l’oggettivazione del corpo della donna e della sua riduzione ad orifizio e funzione altrui. In un mondo in cui le regole sono fatte dagli uomini è ovvio che questi le facciano a propria misura e convenienza, anche per ridurre al minimo la conflittualità che ogni consorzio inevitabilmente crea. 

La doverosa comprensione dei meccanismi che portano all’imposizione delle norme che governano una comunità, può dar loro un senso se interpretate all’interno del contesto che le ha generate, ma deve servire soprattutto ad interrogarsi sulla necessità del loro vigore anche in condizioni mutate dell’esistere sociale. 

Ecco, personalmente sono persuasa del fatto che se di innocenza si vuole continuare a parlare riferendoci ai giovani, la si debba intendere come la non conoscenza dei mali del mondo e l’inevitabile affidarsi agli adulti affinché indichino loro le strade meno insidiose possibili per crescere. Per quanto mi sforzi è questa la sola purezza di cui i ragazzi sono inconsapevoli latori, senza dimenticare l’insegnamento dell’anonimo che ha scritto :” Se consideri una fanciulla meno pura per averla toccata, dovresti dare un’occhiata alle tue mani.” 

 Rosamaria Fumarola. 

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Giornalista pubblicista, scrittrice, critica jazz, autrice e conduttrice radiofonica, giurisprudente (pentita), appassionata di storia, filosofia, letteratura e sociologia, in attesa di terminare gli studi in archeologia scrivo per diverse testate, malcelando sempre uno smodato amore per tutti i linguaggi ed i segni dell'essere umano