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Semplici fake news o manipolazione intenzionale? Il caso di Hakimi decapitata

Perché tirare fuori questa storia?
Perché sembra impossibile credere alla facilità con cui i media – tutti i media, ma soprattutto quelli italiani – passano continuamente notizie palesemente false.
E non si tratta di fake news neutre – quelle, per intenderci, puramente scandalistiche – ma di racconti che orientano fortemente l’opinione pubblica rispetto agli eventi, specialmente per quello che riguarda la politica internazionale

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Di Benedetta Piola Caselli

Conoscete la storia di Udo Ulfkotte?

Era il giornalista più celebre del Frankfurter Allgemeine Zeitung, uno dei maggiori quotidiani tedeschi; era ammirato,  ascoltato, veniva invitato alla televisione e ai convegni, scriveva libri.

Ma l’ultimo che ha scritto ha lasciato tutti di stucco.

Si chiama “Giornalisti comprati” ed è il racconto di come la stampa europea sia manipolata attraverso una fitta rete di intelligence, ambasciate USA, fondazioni, lobby, affinché diffonda notizie filoaltantiste.

Suona complottismo?

Ulfkotte parla di se stesso, della sua meravigliosa carriera, ma ricostruisce anche quelle di 391 fra i giornalisti più influenti del mondo, e racconta di opinionisti pagati 20.000 euro per interpretare gli eventi in senso filoamericano, di “messaggeri” che arrivavano in redazione con delle pretese ben specifiche, di inviti, cene,  vantaggi personali.

Termina con una triste conclusione: non credete a quello che sentite; il giornalismo indipendente esiste, ma rimane nell’oscurità.

Il libro avrebbe dovuto fare grande scalpore, ma non ne ha fatto – se ne è parlato un po’ in Germania, ma in Italia è passato sotto silenzio.

Non sono a conoscenza che sia stato smentito.

Perché tirare fuori questa storia?

Perché sembra impossibile credere alla facilità con cui i media – tutti i media, ma mi riferisco soprattutto a quelli italiani – passano continuamente notizie palesemente false.

E non si tratta di fake news neutre – quelle, per intenderci, puramente scandalistiche – ma di racconti che orientano fortemente l’opinione pubblica rispetto agli eventi, specialmente per quello che riguarda la politica internazionale.

L’Afghanistan è stato il caso più recente.

Vi ricordate, nel corso dell’ evacuazione di Kabul, il ripetere martellante della storia sui “corpicini martoriati” (così si espresse una giornalista di Rai3) dei neonati scagliati contro il filo spinato per salvarli dalla furia dei taliban?

E la storia delle mamme che consegnavano ai soldati i loro piccini perché li portassero in Europa, passandoli oltre le recinzioni dell’aereoporto?

O, ancora, le esecuzioni di massa durante l’avanzata; il divieto di istruzione per le donne; il comico Khasha Zwan che sarebbe stato ucciso in quanto comico, perché prendeva in giro i talebani?

Nessuna di queste notizie era vera e con un po’ di logica e fact checking avrebbe potuto essere smentita; eppure televisioni, radio e giornali (per non parlare dei social) le hanno diffuse in modo martellante e senza possibilità di critica: ogni problematizzazione veniva aggredita.

Cosa ancor più agghiacciante è che molte di queste informazioni si basavano su false testimonianze di persone che pure erano lì e su “prove” volutamente manomesse. 

Così, pur se i cronisti in loco ci parlavano dei “corpicini martoriati” sul filo spinato, non un solo fotogramma è stato prodotto, non una sola storia raccontata in modo da poterla verificare. 

Quando una foto è stata prodotta – e sembrava davvero che un piccino fosse lanciato su un filo spinato – si è poi scoperto che era stata tratta da un filmato che mostrava tutt’altro: il bambino veniva passato ad un soldato attraverso il filo, perché doveva essere visitato da un medico militare all’interno dell’areoporto.  

Stessa storia per i bambini consegnati ai soldati attraverso le recinzioni “per essere messi in salvo”, che in realtà passavano giusto prima dei genitori, e che stavano per essere espatriati con tutta la famiglia appartenendo alla lista dei privilegiati che potevano partire: i filmati erano stati tagliati.

E’ dovuto intervenire lo stesso Pentagono per smentire quelle sciocchezze.

E ancora: le esecuzioni sommarie attribuite all’avanzata talebana erano invece vecchi filmati girati in Siria nel 2019; la caccia “porta a porta” degli oppositori (pur prevedibile) non è mai stata provata con nessun dato concreto; le donne escluse dall’istruzione, favola ripetuta sulla base di “interviste” a presunte studentesse, si è ridotta a classi separate maschi e femmine, come era da noi fino a poco tempo fa; nessun velo è stato imposto alle giornaliste occidentali, che lo hanno scelto liberamente per “drammatizzare” la scena; nessun’aggressione è stata fatta ai giornalisti in genere, anche se possono esserci stati incidenti spiacevoli, di minore gravità, nel corso di tafferugli.

Ci sono stati casi di esecuzioni sommarie, peraltro limitati nel numero, ma le ragioni sono state molto diverse da quelle che ci hanno raccontato.

Riprendo quello del comico Khasha Zwan, a cui ho già accennato, perché mi sembra molto indicativo.

Kasha Zwan, secondo le informazioni diffuse insieme a un video diventato virale che lo vedeva motteggiare mentre veniva rapito, sarebbe stato ucciso per i suoi spettacoli anti-taliban – e quindi per un problema di libera espressione del pensiero, principio molto caro agli americani.

Questo eroe della satira risultò invece essere anche il capo di una squadra di polizia che, per anni, aveva torturato gli oppositori macchiandosi di orrende violenze.

Inoltre, si scoprì che non era stato ucciso da un ordine dei taliban, ma dall’azione indipendente di un gruppo che cercava vendetta per soprusi subiti dalle proprie famiglie. 

In questi fatti la verità è emersa a poco a poco, e cioè man mano che l’oscuro giornalismo indipendente – coraggiosamente e sfidando il pensiero unico mainstream – ha portato le prove delle manipolazioni alle notizie.

Cosa è successo poi?

Proprio nulla.

Ci si sarebbe aspettati che i media, dopo aver fatto tanto clamore su fatti inesistenti, avessero almeno fatto marcia indietro e corretto il tiro, ma non è accaduto – l’unico fu Mentana per i filmati sulle esecuzioni di massa.

E ci si sarebbe aspettati che i giornalisti – in particolare i corrispondenti che si dicevano “testimoni” di quel che avveniva – si dimettessero per avere svolto in modo così infedele la propria professione.

Non è successo.

La verità dei fatti è rimasta marginale ed è circolata quasi unicamente sui social.

Quanto a noi pubblico, fruitori velocissimi di sciocchezze che resistono nel nostro interesse lo spazio di un giorno, evidentemente non abbiamo imparato nulla.

In questi giorni è virale una storia simile a quella del comico/aguzzino Khasha Zwan: la diciottenne Mahjabin Hakimi sarebbe stata decapitata perché giocatrice di pallavolo.

La notizia è impazzata sui social, nonostante non avesse alcuna fonte e fosse totalmente controintuitiva.

Apparentemente, sarebbe stata ridiffusa da un piccolo sito persiano che riprendeva, distorcendole, le affermazioni di una compagna di squadra – che peraltro non aveva mai parlato del taglio della testa, dettaglio splatter puramente immaginario.

E’ dovuta intervenire la famiglia, chiedendo silenzio e rispetto, e spiegando che Hakimi era morta nel bagno della casa del fidanzato, soffocata da un sacchetto di plastica, dieci giorni prima che i taliban entrassero a Kabul.

Ora: che si sia trattato di suicidio o di omicidio, come pure si potrebbe pensare, di sicuro però i taliban non c’entrano nulla.

Così come non c’entra la pallavolo (la ragazza aveva smesso di giocare nel 2015)  e così come non c’entra la testa tagliata… perché non è stata mai tagliata.

Non serviva questo intervento addolorato e indignato per capire che la storia era falsa.

Per esempio, se il problema era la pallavolo, perché non erano state uccise anche le altri giocatrici?

E se doveva essere una punizione esemplare per un comportamento considerato immorale, perché non fare pubblicamente l’esecuzione e anzi volere tenere la notizia segreta? 

Che lezione potrebbe mai essere una lezione segreta?

Eppure, nessun media a italiano si è sottratto alla ripetizione di queste sciocchezze: non la RAI, non La7, non Mediaset, per non parlare dei quotidiani e dei social; e, anche in questo caso, nessun media ha mai fatto marcia indietro sulle falsità che ha contribuito a diffondere.

Ora: noi sappiamo bene – perché Goebbles, ministro della propaganda hitleriana, rese famoso il metodo – che basta ripetere molto una notizia, per farla accettare come vera; e sappiamo anche che più è incredibile e immaginifica la storia, più facilmente penetra nelle masse perché ne colpisce l’attenzione.

Anche se suona “complottista”, a questo punto però dobbiamo porci la domanda: la diffusione di notizie false avviene per sciatteria (cioè i giornalisti non controllano), volontariamente ma per amore di sensazionalismo (cioè i giornalisti sacrificano la verità per amore di sensazionalismo) o dietro c’è un disegno politico?

Rispetto al primo punto, cioè se queste notizie vengono diffuse perché nessun giornalista controlla le fonti e nessuno – evidentemente – è capace di fare una critica di logica formale, bisogna ricordare che in ogni scuola di giornalismo si insegna che la notizia deve essere verificata. 

E’ statisticamente impossibile che, in un paese come il nostro, non ci sia un solo giornalista che lo faccia, né in televisione, né in radio, né per stampa, o che si premuri di correggere quanto affermato, se si rivela sbagliato.

Rispetto al secondo, e cioè se le fake news sono date consapevolmente, ma per amore di sensazionalismo, è forse questo il caso più probabile.

Non è una riflessione confortante.

Anche se è comprensibile la necessità dei media tradizionali di “tenere il passo” con i social e suscitare un interesse che è difficile tenere alto, resta la domanda: che ci facciamo con una informazione che disinforma?

In che modo ci sono utili televisioni, radio e giornali, se non fanno che riproporre lo stesso modello di comunicazione – velocissimo, sensazionalistico e totalmente irriflessivo – che è prerogativa dei social?

E’ evidente che o il ruolo dei media tradizionali si definirà su un livello contenutistico più alto, con un miglior controllo e spunti di pensiero, oppure sono destinati a scomparire senza che nessuno ne senta la mancanza.

Resta il terzo punto, che si può lasciare aperto ma non inaffrontato.

Le fake-news che vengono diffuse non sono puramente sensazionalistiche perché veicolano un unico messaggio: i taliban sono cattivi, si stava meglio quando c’erano gli americani.

Non una sola notizia è stata diffusa contro questo contenuto, e questo è statisticamente strano se la molla delle fake-news fosse unicamente la ricerca dell’emozione e dello stupore. 

Invece,  sembra proprio esserci la preparazione dell’opinione pubblica rispetto al giudizio su alcune questioni fondamentali.

Una, sicuramente, è rivolta al passato: è la ricerca di conforto per un fallimento politico e militare spaventoso. 

Passando il messaggio “tremende atrocità dei talebani”, si rinforza l’idea che i 20 anni del governo di occupazione straniera fossero almeno serviti a lenire le sofferenze della popolazione. 

Questo sarebbe il risvolto più innocuo. 

Ma, siccome siamo in corso di trattative con il nuovo governo, e siccome bisognerà scegliere come posizionarsi sul futuro di un Paese che sta per affrontare una delle più gravi crisi umanitarie della storia e che – suo malgrado – non cesserà di essere una cartina tornasole dei rapporti di forza geopolitici,  bisogna almeno porsi il problema descritto da Ulfkotte: siamo in uno scenario di guerra psicologica?

La risposta è aperta.

Quale che sia, resta che, senza un’informazione che sia veramente informazione, nessuna scelta può essere fatta in modo veramente libero, e quindi democratico.   

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