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Carcere, strumento di giustizia?

Oggi in Italia i cittadini invocano quasi sempre il ricorso a pene più severe ed il carcere duro, ma la verità è che non sanno cosa sia quella prigione che esigono per gli altri. 

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Il giustizialismo sembra andare di moda ed anche se le maggioranze da sempre sono forcaiole, non v’è dubbio che (forse sempre per moda) vi siano stati periodi nei quali esserlo non è stata cosa della quale farsi vanto. La stagione che ha portato alla chiusura dei manicomi, con la fioritura del garantismo e le battaglie per i diritti civili degli anni 70,  appartiene a quest’ultimo novero. Oggi assistiamo in Italia invece all’affermarsi di un tendenza che va in direzione diametralmente opposta. I cittadini invocano infatti quasi sempre il ricorso a pene più severe ed il carcere duro, ma la verità è che non sanno cosa sia quella prigione che esigono per gli altri. 

Fino a non molti anni prima della sua morte,  il leader dei Radicali Marco Pannella ha fatto visite periodiche nelle carceri italiane. Alcuni dei filmati riguardanti quelle ispezioni (che parevano più incursioni), sono stati anche se di rado trasmessi dalle reti televisive nazionali. La visione di uno di questi, risalente forse agli anni 90, lasciò su di me un’impressione di cui faccio ancora oggi fatica a liberarmi. Ero a conoscenza del fatto che l’Italia fosse stata condannata a più riprese da vari organismi europei ed internazionali per le condizioni disumane riservate ai detenuti nei nostri istituti di pena, sempre sovraffollati e fatiscenti, ma quanto poteva vedersi in quelle registrazioni andava ben oltre ogni  immaginazione. 

Non riuscivo a comprendere la ragione per la quale, mentre tutto pareva intorno a me destinato a migliorare per un progresso inarrestabile, ciò non riguardasse nemmeno in minima parte la condizione dei detenuti delle nostre galere. Mi sembrava che l’inferno in terra avesse parecchi indirizzi, molti dei quali in questi luoghi per la maggior parte di noi inaccessibili. Le visite all’epoca di parlamentari come Pannella erano necessarie proprio perché per un cittadino qualunque non era e non è nemmeno oggi cosa semplice farsi un’idea concreta della vita carceraria, la cui componente fondamentale rimane la sottrazione di qualunque forma di dignità a chi vi entri da detenuto. Un girone dantesco in buona sostanza, il cui solo scopo raggiunto, ad onta di ogni garanzia costituzionale è la disumanizzazione e la riduzione alla condizione di schiavi privi di qualunque diritto, quanti vengano giudicati responsabili di aver violato la legge. Ne sia prova il numero altissimo di suicidi che si verificano e che tende ad aumentare, restituendoci la prova inconfutabile di un peggioramento costante della situazione.  Non è necessario possedere una laurea in giurisprudenza per comprendere quanto ciò cozzi con il fine riabilitativo che invece le nostre leggi perseguono, anzi la sensazioni che se ne ha è che non vi sia niente di più lontano dalle garanzie costituzionali della condizione dei detenuti nelle carceri italiane, vera terra di nessuno in cui a prevalere pare sia solo la legge del più forte. 

Ma “cui prodest?” la tortura inflitta ai cittadini colpevoli di aver violato le norme del nostro ordinamento? Il solo dato che emerge incontestabile è il fallimento di ogni proposito rieducativo di chi, val la pena ricordarlo, resta comunque un cittadino di questo paese, sottoposto però più che a misure detentive a quelle punitive, in palese contraddizione con la ratio dichiarata dalle nostre  norme. Peraltro il sovraffollamento carcerario italiano non è dovuto all’alto numero di criminali incalliti  che paiono nati per delinquere (ammesso che ve ne esistano), no. Nelle celle delle galere di questo paese sono rinchiusi soprattutto coloro i quali già fuori non godevano delle tutele che uno stato civile dovrebbe assicurare: extracomunitari, tossicodipendenti diventati piccoli spacciatori e soprattutto ( lo dicono i numeri e non soggettive valutazioni di carattere morale) i poveri.  Ma se sono soprattutto gli indigenti a finire in carcere, non sarebbe più opportuno intervenire affinché il loro numero fosse ridotto attraverso il ricorso a strumenti diversi dal carcere? 

La segregazione è peraltro fuorviante, poiché induce nell’erronea convinzione che chi delinque sia irrimediabilmente diverso da chi rispetta le leggi, senza che ci si ponga alcuna domanda sulle ragioni che stanno alla base della maggior parte delle violazioni. Giuristi come  Gustavo Zagrebelsky ritengono che sia oggi giusto considerare obsoleto lo strumento della detenzione in carcere e dello stesso avviso sono l’ex magistrato Gherardo Colombo ed il sociologo Luigi Manconi. La proposta di fare a meno di questo strumento può apparire provocatoria, ma non lo fu un tempo anche quella di abolire i manicomi?

Rosamaria Fumarola 

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Scrittrice, critica jazz, giurisprudente (pentita), appassionata di storia, filosofia, letteratura e sociologia, in attesa di terminare gli studi in archeologia scrivo per diverse testate, malcelando sempre uno smodato amore per tutti i linguaggi ed i segni dell'essere umano