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E se avessimo bisogno delle recessioni?

Siamo portati a considerare le recessioni come eventi terribili, infatti causano un aumento generale della paura tra la popolazione, preoccupata per i propri risparmi, per un calo della qualità della vita, o anche per il prossimo pasto. Per tutte queste ragioni compariamo le crisi economiche alle calamità naturali. Entrambe, nonostante siano in grado di causare disastri di massa, sono accettate da larga parte dalla società come cataclismi “inevitabili” anziché “rari”. Ma proviamo a ribaltare il punto di vista.

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Pixabay, dominio pubblico

di Alessandro Andrea Argeri

E se avessimo bisogno delle recessioni? Okay, questa potrebbe sembrare una strana idea, finché non si considerano le caratteristiche della crisi economica al momento in corso, la cui durata è stimata per altri quattro o cinque anni, come previsto da Cameron King su Forbes Magazine. Fin dall’età antica ogni società ha avuto il suo complesso sistema economico, vulnerabile ad eventi intangibili quali alluvioni, terremoti, siccità, uragani, o guerre, pertanto è lecito domandarsi: cosa sono le recessioni? Perché sono diventate così comuni? Sono eventi necessariamente brutti?

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La “recessione” si verifica quando la domanda è più bassa dell’offerta, poiché i consumatori non consumano più come prima a causa dell’insicurezza, della mancanza di lavoro, della generale penuria di denaro. In poche parole: non spendono, non comprano, pertanto le imprese non guadagnano. La crescita è misurata da uno specifico indice relativo all’andamento dei consumi: il PIL (prodotto interno lordo), ovvero il valore totale dei beni prodotti oltre che dei servizi disposti in uno Stato durante quel dato anno. Meno consumazioni porta meno PIL, il quale a sua volta causa meno crescita.

In passato l’economia si basava principalmente sulla produzione agricola, dunque era dipendente dal clima. Con le rivoluzioni industriali, quindi con l’avvento del “settore secondario” basato sulle industrie, il sistema economico si incentrò sempre più sulle fabbriche, sui trasporti, sulle catene di montaggio, sulla finanza. Questa catena basata sul “capitale”, ovvero la somma del guadagno monetario con i macchinari dal lavoro, è in vigore tutt’ora. Per funzionare ha bisogno di una produzione incessante di prodotti. Di conseguenza sono necessari consumatori sempre disposti a comprare in un processo senza fine.

Sin dal secolo scorso i mercati finanziari hanno vissuto periodi di alta volatilità i cui effetti si sono propagati nell’economia reale. Possiamo definire questi fenomeni “ciclici”, poiché ogni passaggio si ripete esattamente allo stesso modo. L’economia moderna è detta “di mercato” in quanto le leggi della domanda e dell’offerta determinano i prezzi. I cambiamenti nel sistema economico avvengono perché entrano in gioco diverse variabili come la produttività, i tassi di inflazione, di interesse, di cambio, le quali nel loro insieme modellano il ciclo. È la tendenza di movimenti al rialzo o al ribasso a determinare in definitiva la crescita complessiva a lungo termine di un’economia.

Il ciclo economico si articola in più fasi: espansione, recessione, depressione, ripresa. Durante l’espansione abbiamo una forte crescita, tassi d’interesse bassi, aumento della produzione, quindi poi dell’inflazione. Quando la crescita dell’economia raggiunge un tasso massimo si va in recessione, durante la quale la crescita rallenta, aumenta la disoccupazione, l’inflazione diminuisce, continua fino alla depressione, punto basso del ciclo economico, poi il Pil torna a salire in una nuova fase di espansione, le imprese generano nuovamente profitti, assumono più dipendenti, di conseguenza c’è più reddito disponibile, allora aumentano i consumi.

Un’economia dovrebbe essere sempre in espansione, tuttavia sono necessarie contrazioni per tenere sotto controllo l’inflazione. Quest’ultima infatti se troppo elevata porta l’inefficienza all’interno di un’economia di mercato. Terminata la ripresa, il ciclo ricomincia. Ogni fase può durare molti anni, non esiste un tempo determinato, è impossibile sapere quando una inizia o l’altra termina. Sicuramente un’economia sana attraverserà sempre una fase di contrazione di tanto in tanto.

Veniamo ai giorni nostri. L’Italia al momento risponde bene alla crisi economica. Stranamente il Pil non è in calo, eppure il nostro Paese è ancora lontano dall’essere considerato stabile siccome solo parzialmente sono state recuperate le perdite subite sul fronte dei redditi delle famiglie, inoltre il tasso di disoccupazione è ancora molto alto. La nostra è in realtà una doppia crisi, in quanto manca capacità di innovazione nel sistema produttivo, oltre che imprese presenti nei settori tecnologicamente più avanzati. Anche quando si parla di sviluppo sembriamo volerlo raggiungere senza l’importante strumento della “ricerca”, i cui investimenti sono fermi all’1,5% del Pil sebbene questa sia diventata sempre più cruciale negli altri paesi, nei confronti dei quali negli ultimi anni si è ampliato il divario tecnologico.

È come se avessimo rinunciato al salto di qualità. Eppure lo sviluppo dell’informatica ha influenzato i mercati sia nella trasmissione degli ordini sia nella determinazione dei prezzi degli stessi. Insomma l’innovazione non può essere separata dalla crescita. Allo stesso modo il cambiamento tecnologico non può pensarsi senza degli interventi strutturali. Aumentare le retribuzioni del ceto medio-basso potrebbe essere già una prima soluzione per incentivare i consumi.

Per concludere, la recessione non è un fenomeno strettamente necessario. Tuttavia è anche la prova di un bisogno diffuso in tutto il mondo di un’economia più salutare in quanto lo stile di vita condotto dall’uomo moderno non è più sostenibile a causa dello spreco delle risorse naturali, dell’inquinamento, del riscaldamento globale, dell’aumento della disoccupazione, per questo in futuro dovremo essere abili a combinare prosperità con responsabilità. Voi cosa ne pensate? Fatemi sapere: alexargeriwork@gmail.com

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Giornalista regolarmente tesserato all'Albo dei Giornalisti di Puglia, Elenco Pubblicisti, tessera n. 183934. Pongo domande. No, non sono un filosofo (e nemmeno radical chic).