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Editoriale

Sex workers, le schiave che nessuno difende

Siamo disposti (e per fortuna) a scendere in piazza per i diritti dei malati, in difesa dei diritti degli omosessuali e dei diritti degli animali ma è molto lontana da noi l’idea di manifestare, magari con un cartello con su scritto “le donne non sono in vendita”, offrendo il nostro sostegno a chi ne avrebbe bisogno. Nella maggiore parte di noi è praticamente inesistente una coscienza centrata su questa problematica e viene spontaneo chiedersi perché.

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Credit foto Reggio Sera

Nonostante i fatti più recenti ci parlino di un’Italia in una certa misura razzista, persino i razzisti sono consapevoli di porsi contro una importante conquista dell’uomo sul piano culturale e politico. E’ proprio questa consapevolezza che li fa esordire, se invitati ad esprimere pubblicamente la propria opinione, con un: “io non sono razzista, ma…”

Di molto è anche e per fortuna cambiato l’atteggiamento della società nei confronti di quanti siano affetti da sindrome di Down, fino a qualche decennio fa spregiativamente chiamati mongoloidi. Dopo la Legge Basaglia, che ha imposto la chiusura dei manicomi sul territorio nazionale, anche gli ammalati psichiatrici hanno potuto godere di un mutato atteggiamento da parte dell’opinione pubblica nei loro confronti.

Anche l’animalismo gode oggi di un seguito impensabile all’epoca in cui sono vissuti i nostri nonni. Insomma, le battaglie in difesa dei più deboli o di quanti siano ingiustamente vessati hanno prodotto dei frutti che non possono che farci ben sperare per il futuro. 

Vi è solo una “categoria” che proprio non riusciamo a difendere: quella delle donne, ma anche degli uomini e dei transessuali, che ricorrono alla prostituzione per mantenere sé ed eventualmente pure le loro famiglie.

Negli anni ’70 del secolo scorso sorsero associazioni che si occupavano della difesa dei loro diritti ed ancora oggi vi sono gruppi dedicati a tali problematiche, con una differenza: mentre subito dopo il ’68 queste donne venivano intervistate, apparivano in tv e comunicavano a chi le ascoltava ciò che ritenevano fosse necessario per un miglioramento delle loro condizioni di vita, oggi è più raro che abbiano uno spazio fruibile dal pubblico, consapevoli di trovarsi con esso sul medesimo piano. 

La rappresentazione di sé offerta da queste donne e questi uomini, in gruppi che facciano parte della società civile e che in essa siano visibili, appare sfumata se non assente o relegata al ruolo di morbosi racconti da dare in pasto al pubblico, da sempre assetato di presunte oscenità. La prostituzione e quanti la praticano è tornata ad essere un luogo che esiste ma del quale è meglio non parlare, almeno non per tentare di combatterla, non per tentale di sconfiggerla, benché essa sia la vendita di ciò che è un bene indisponibile, cioè una parte dell’essere umano e dunque uno sfruttamento esercitato da un uomo nei confronti di un altro essere umano, che di fatto viene privato di tutti gli altri attributi che lo qualificano come tale. 

Appare ben strano, se consideriamo quest’ultimo aspetto, quello cioè dello sfruttamento, che non si assista a manifestazioni pubbliche, a donne che scendano in piazza per difendere altre donne soprattutto, da un crimine in qualche modo legalizzato. Siamo disposti (e per fortuna) a scendere in piazza per i diritti dei malati, in difesa dei diritti degli omosessuali e dei diritti degli animali ma è molto lontana da noi l’idea di manifestare, magari con un cartello con su scritto “le donne non sono in vendita”, offrendo il nostro sostegno a chi ne avrebbe bisogno. Nella maggiore parte di noi è praticamente inesistente una coscienza centrata su questa problematica e viene spontaneo chiedersi perché.

Se formulassi in pubblico questa domanda sono sicura che molti obietterebbero che non tutte le prostitute sono costrette a vendersi e che molte lo fanno per puro piacere e per ottenere un guadagno superiore a quello offerto da altri lavori, che insomma la loro può considerarsi a tutti gli effetti una libera scelta. Non escludo che esista una percentuale seppur risicata di donne che appartengono a questa categoria, a cui però sono persuasa sfugga la stragrande maggioranza delle prostitute che, nonostante ciò, ci ostiniamo a classificare come donne non per bene.  Ma quando una donna può considerarsi per bene? Quando è moglie e madre devota, che non tradisce il proprio uomo, insomma quando abdica all’autodeterminazione per affidarsi a qualcuno che sarà in grado, solo lui, di sapere cosa davvero sia importante per essere donna. 

Si obietterà che il numero delle donne che lavorano “onestamente” e che sono parte attiva della società civile è oggi più alto che in ogni altro momento storico e questo è senz’altro vero, ma che non riguardi la massa, la maggioranza delle donne, è altrettanto vero. Chiunque per altro, sarà in grado di cogliere che nella definizione di donna perbene la componente che prevede il non tradire il proprio compagno ci parla esplicitamente di un solo interesse tutelato: quello dell’uomo, per atavica tradizione invece non monogamo ma che, al contrario della donna, se tradisce rimane comunque rispettabile. Insomma, se ci si sforza di comprendere taluni segnali, la realtà ci parla di un mondo, quello della prostituzione, creato dagli uomini, in cui una parte del sesso femminile è disumanizzata, ridotta ad una sua funzione, per assicurare all’uomo l’esercizio di un potere, quello di fare ciò che vuole con una donna senza che essa possa esprimere una propria, magari contraria, volontà. Che una prostituta sia considerata da noi tutti “altro” rispetto alla società civile è testimoniato dal fatto che se in una situazione di pericolo, in cui ciascuno di noi può trovarsi, chiama in suo soccorso le forze dell’ordine, non è escluso che il carabiniere o il poliziotto di turno possano chiederle una prestazione sessuale. Insomma per le prostitute non sempre valgono le forme di tutela garantite per legge a tutti gli altri cittadini.

La mia sensazione è che gli esseri umani abbiano in qualche modo sempre bisogno di creare categorie che siano prive di diritti proprio per assicurarsi uno sfruttamento impossibile se a tutti fossero concretamente riconosciute le stesse tutele. Una parte delle società che fino ad oggi siamo stati in grado di creare, per assicurare la libertà di taluni deve privarsi della propria.

A corollario di quanto sopra scritto aggiungo che esiste una parte del mondo femminista che si batte per identificare le prostitute come “sex workers”, cioè come donne da tutelare in quanto lavoratrici, prescindendo tuttavia dal dato non trascurabile che le prestazioni sessuali non possono considerarsi un lavoro e questo perché privano chi le esercita di una parte della propria umanità e per ciò nessuna legge degna oggi di questo nome potrà farsi carico della sua tutela. 

La prestazione è sempre esistita e per questo è inutile pensare di abolirla? Certo, nella Roma antica la si praticava, ma questo non può bastare a giustificarne il suo esercizio oggi, in condizioni sociali e politiche così diverse.

Per arrivare però ad una lotta che possa portare le donne a liberarsi da questa schiavitù sarebbe necessaria una consapevolezza, una conoscenza della problematica, che la società non ha né intende avere ed è su questo che prima di ogni altra cosa bisognerebbe oggi interrogarsi per sapere quanto sia possibile definirci esserci civili.

Rosamaria Fumarola

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Giornalista pubblicista, scrittrice, critica jazz, autrice e conduttrice radiofonica, giurisprudente (pentita), appassionata di storia, filosofia, letteratura e sociologia, in attesa di terminare gli studi in archeologia scrivo per diverse testate, malcelando sempre uno smodato amore per tutti i linguaggi ed i segni dell'essere umano