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La strage di Esperia, l’inutilità di ogni perché
di PIERDOMENICO CORTE RUGGIERO
Un padre entra nella stanza dove stanno dormendo il figlio e la figlia.
Dormono sereni, non hanno nulla da temere. Il figlio si è laureato da pochi mesi, già lavora. La figlia si è appena diplomata brillantemente, qualche anno prima aveva vinto una grave malattia grazie alla madre che le aveva donato un rene. Il padre guarda i figli dormire, figli che aveva sempre seguito passo dopo passo, sempre presente. Sono soli in casa, la moglie è uscita per una passeggiata. Si avvicina al letto dei figli, è un attimo. Tre colpi di pistola alla tempia. Uno per ciascun figlio, l’ultimo lo riserva per se stesso. Una stanza che conteneva gioia, sogni, progetti e gioia di vivere, ora contiene tre cadaveri. La moglie, la madre, rientra. Trova i corpi senza vita, di coloro che erano tutta la sua vita. Il tempo di chiamare i soccorsi, prima di impazzire dal dolore. Questo è successo ad Esperia, in provincia di Frosinone, il 21 agosto scorso. Potremmo fermarci qui. Mentre l’indagine giudiziaria deve ovviamente trovare cause e spiegazioni, sembra inutile ogni discussione su una tragedia tanto immane. Eppure la necessità di capire, di spiegare rimane forte in ciascuno di noi. Perché un padre, descritto come una brava persona, uccide i figli? In realtà non esiste un perché che siamo disposti ad accettare. In casi come questo, ci rifugiamo nelle solite formule. Follia, mostro, raptus. Perché abbiamo la necessità di catalogare le persone. Brava persona, delinquente, pazzo, genitore amorevole, cattivo genitore, ecc. Ma le persone non possono essere catalogate con esattezza. Siamo meccanismi delicati e complicati. Fatti di molti ingranaggi. Basta un granello di sabbia per bloccare e incrinare tutto. Può anche accadere che una persona considerata brava, possa perdere l’equilibrio interiore e uccidere. Questa cosa mette paura. Non possiamo accettarla. Per questo abbiamo la necessità di spiegare certe tragedie con termini come follia, malattia, cattiveria. Per questo motivo abbiamo la necessità di trovare un perché, per dimostrare che è successo a lui o a lei ma non può succedere a noi. Simili tragedie dimostrano che spesso non conosciamo totalmente e realmente le persone che abbiamo davanti, e spesso nemmeno noi stessi. Nei rapporti sociali, di qualsiasi tipo, di una persona conosciamo solo la parte che ci interessa. Solo in pochi casi abbiano una visione completa e approfondita. Abbiamo delle conoscenze imperfette. Non potrebbe essere diversamente, visto che la perfezione non è possibile. Davanti a tragedie come quella di Esperia, siamo come in una notte di tempesta. Vulnerabili, confusi. La razionalità, i perché, non bastano a difenderci. Ma sono gli unici strumenti che sappiamo usare. Passati i primi giorni, la vita poi continua. Continuiamo ad illuderci di conoscere noi stessi e gli altri. Perché è più semplice, più veloce, più conveniente. Spesso dalle persone “prendiamo” solo ciò di cui abbiamo bisogno, prestando scarsa attenzione al resto. Ovviamente conoscere ogni aspetto di una persona non è semplice, a volte è impossibile. In ciascuno di noi esiste un punto debole, critico. Sottoposto alle scosse quotidiane. In alcuni il punto critico crolla. Provocando un cedimento strutturale. Le cattive azioni non sono prerogativa di malati di mente e gente cattiva. E’ utile ripeterlo. Quindi non dovremmo chiederci perché? Piuttosto dovremmo chiederci conosco? Conosco me stesso? Conosco la persona che ho davanti? Conosco i suoi problemi? Conosco le sue fragilità? Anche se non possiamo conoscere tutto di una persona, sarebbe un grande passo in avanti il tener conto del fatto che il nostro giudizio su una persona sarà sempre viziato dalla conoscenza parziale. Una nostra amica, un nostro amico, nostra madre, nostro padre, nostro marito, nostra moglie, possono avere dei lati che non conosciamo, dei punti deboli, a volte dei lati oscuri. Una realtà difficile da accettare, ma che non possiamo ignorare. A ricordarcelo i tre spari di Esperia.
Credit foto www.iltempo.it
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