Politica
La sinistra e il suo senso di colpa. Conversazione con lo storico Mario Spagnoletti (Prima parte)
Cosa ha portato i lavoratori e tutti coloro che economicamente e socialmente sono meno tutelati nel nostro paese, a sentirsi rappresentati dalle destre e non da quei partiti nati un tempo per dar voce proprio alle lotte degli operai? Lo abbiamo chiesto allo storico Mario Spagnoletti.
Il tempo che stiamo vivendo ci vede schierati gli uni contro gli altri come non accadeva ormai da anni in questo paese e come, fino a non molto tempo fa, nessuno avrebbe ragionevolmente creduto potesse accadere.
Confesso di non trovare che sia un male una difesa forte, senza incertezze, di ciò che si crede giusto anzi ho salutato come positivo il fatto che di fronte ad argomenti cruciali molti di noi abbiano deciso di schierarsi, di trovare necessario di tornare all’impegno politico. Tuttavia, mi domando se questa spaccatura dell’opinione pubblica possa considerarsi fino in fondo un bene e quali ne potrebbero essere le conseguenze, visto che anche la dimensione privata di ciascuno di noi non può non esserne coinvolta e se da un lato trovo doverosi la lotta e l’impegno civile, dall’altro lato non posso non chiedermi cui prodest la situazione nella quale la politica e l’economia attuali ci stanno costringendo a vivere.
Nella incapacità di trovare io stessa una risposta, ho deciso che la sola strada consentita per ora ragionevolmente dovesse essere la conoscenza dei meccanismi storico-politici che sin qui ci hanno portato, consapevole del fatto che se una strada esiste, non possa che partire dalla conoscenza.
Mi sono dunque recata dal Professor Mario Spagnoletti, già docente di Storia Contemporanea presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bari, e di rivolgergli tutte quelle domande che mi sono parse utili a consentire a me e a chi legge di farsi un’opinione che lo liberi dallo smarrimento nel quale si trova a vivere.
Il Professor Spagnoletti ha esaustivamente risposto a tutte le domande che gli ho rivolto; il frutto di questo incontro è stato diviso in due parti, la prima delle quali è pubblicata qui di seguito e la seconda apparirà nel prossimo numero di questa rivista.
La fortuna di poter dialogare con un intellettuale come Mario Spagnoletti mi ha convinto del fatto che è vero ciò in cui ho sempre creduto e cioè che esistono ancora persone che non hanno una “doppia morale” da indossare o togliersi di dosso all’occorrenza. Infine, l’incontro mi ha confermato che la strada che stiamo percorrendo non sia giusta, e che non la stiamo percorrendo nel migliore dei modi possibili politicamente, culturalmente e pertanto umanamente.
Domanda – Professor Spagnoletti, mi parlerebbe un po’ della sua storia personale, della sua famiglia d’origine, dei suoi studi?
Risposta – Sono nato in una famiglia della media borghesia barese. Mio padre era un dirigente del Ministero della Pubblica Istruzione e fin da piccolo ho potuto respirare un certo clima culturale e soprattutto ho potuto usufruire della biblioteca paterna, il che mi ha indotto ad avere precocemente interessi di tipo culturale tanto storico-letterari, quanto storici più in generale. La mia è stata una formazione classica: ho frequentato il liceo classico “Quinto Orazio Flacco” qui a Bari, maturandomi nel 1968. Non ho mai avuto philìa per le materie di carattere scientifico. Al termine del mio percorso liceale sono approdato all’università e mi sono iscritto a Filosofia, negli anni in cui c’erano grandi maestri come Antonio Corsano, che insegnava Storia della Filosofia, o Mario Sansone, docente di Storia della Letteratura Italiana. Mi sono poi laureato con una tesi su Hegel, seguito da Biagio De Giovanni, anche se la tesi fu formalmente presentata da Nicola Massimo De Feo.
D – Trasse soddisfazione dai suoi studi? Che studente fu?
R – Sì, fui soddisfatto. Non ebbi mai voti inferiori al 30, quindi direi che sì, si è trattato di un percorso abbastanza soddisfacente.
D – Come proseguì dopo la laurea?
R – Essendo all’epoca piuttosto chiusi gli spazi a Lettere e Filosofia, mi sono occupato di storia moderna nella facoltà di Scienze Politiche, proseguendo poi con Storia dei Partiti Politici e infine con Storia Contemporanea.
D – Negli anni universitari, quale fu la sua militanza politica?
R – Mi iscrissi già da giovanissimo alla Federazione Giovanile Comunista Italiana (FGCI), militando poi all’interno del PCI, privilegiando sempre la sezione territoriale del Partito, nel mio caso la sezione “Bari Centro” sita nel quartiere murattiano nel quale abitavo, piuttosto che la sezione universitaria. Dunque, pur facendo il docente universitario, ho sempre preferito esercitare la mia militanza politica presso la sezione territoriale.
D – Perché?
R – Perché credevo che quello fosse il ganglio vitale del rapporto tra il Partito e la Comunità. All’epoca si usava l’espressione “masse”, oggi si direbbe “la gente”. Contestualmente scrivevo per “Rinascita”, per “Critica marxista” che esiste ancora oggi e di cui feci anche parte della redazione allargata.
D – Professore, entrando subito in medias res, secondo lei perché le sinistre oggi deludono così tanto?
R – Si è verificata una effettiva mutazione di tipo storico, sociale, economico e starei per dire di tipo politico-antropologico. Ciò è avvenuto al termine di quelli che sono stati gli anni del welfare, fondamentali per la costruzione del welfare-state e che corrispondono ad una dimensione nella quale esisteva il lavoro operaio come lavoro di fabbrica e quindi agglomerato in quelle grandi unità produttive che erano le fabbriche. Era dunque facile avere una morfologia delle classi sociali intervenendo presso quelle che di più erano vicine allo spirito ed alle linee della sinistra. Alla fine degli anni ’80 inizi degli anni ’90, comincia a delinearsi una sorta di polverizzazione del lavoro di fabbrica, di depotenziamento del ceto operaio inteso in senso stretto, poiché le condizioni di lavoro mutavano e mutava il lavoro stesso sotto la spinta della rivoluzione tecnologica.
D – Era inevitabile…
R – Inevitabile, perché di fronte a questa polverizzazione le sinistre non sono riuscite ad individuare delle forme di intervento che tenessero conto di questi profondi cambiamenti, che erano sì modificazioni di carattere economico e sociale, ma che riguardavano anche il modo stesso in cui le classi lavoratrici riflettevano su se stesse. In questo si determina a mio modo di vedere una sorta di cortocircuito: le sinistre ritengono di poter individuare per se stesse un nuovo ruolo, che è quello di affiancare il processo di finanziarizzazione dell’economia, di puntare dunque sulle trasformazioni senza tener conto del fatto che queste incidevano profondamente sulle classi lavoratrici. Così comincia un lenta e progressiva erosione delle sicurezze, delle certezze dello stato sociale.
D – È da questo momento dunque che la sinistra non è stata più capace di difendere la classe operaia?
R – È da questo momento che la sinistra non individua più degli strumenti.
D – Perché non è più abile nell’individuazione dei mezzi?
R – Perché sostanzialmente, quasi per una sorta di complesso di colpa, ritiene di dover dimostrare, visto che la storia avrebbe decretato la sconfitta sociale di un sistema socialista quale quello sovietico, di sposare e di inseguire una strada diversa, che è quella di una trasformazione in senso più razionale del capitalismo. Non esiste più l’idea che si possano modificare i rapporti di classe, i rapporti di potere, non si intravede più quale sia la classe antagonista e quindi la sinistra si priva della possibilità di essere forza della contrapposizione e di fatto pone in essere delle politiche neoliberiste, temperate, ma sempre neoliberiste, sempre cioè all’interno di quel paradigma che inizia con la presidenza statunitense di Ronald Reagan e in Inghilterra con il premierato forte di Margaret Thatcher e che subito dopo l’89 appare come l’elemento dominante tanto in Occidente quanto in Oriente; Oriente che non ha ormai un punto di riferimento quale quello sovietico.
D – Quindi lei crede che la crisi delle sinistre sia da imputare esclusivamente al crollo del sistema sovietico?
R – Vede, nonostante gli sforzi compiuti dal 1985 da Gorbaciov per portare avanti un processo di trasformazione basato sulla trasparenza, sull’allargamento della sfera politica e la trasformazione in qualche modo anche dei rapporti economici di fatto, la parentesi di Gorbaciov occupò un tempo troppo breve. L’idea è che quel sistema, cioè un’idea di economia che non fosse un’economia di mercato, era stata sconfitta, bisognava per necessità prendere atto di questo fallimento ed in qualche modo vedere come fosse possibile contemperare il neoliberismo più classico con elementi di socialità, non di socialismo. Tutto ciò entra in crisi anche perché inizia ad essere difficile ampliare la possibilità del prelievo fiscale, fondamentale per tenere in piedi un welfare-state e quindi prende avvio un processo di dismissione dell’economia pubblica con la privatizzazione di taluni gangli dell’economia che di conseguenza comportò una forte precarizzazione del lavoro e l’espulsione dei lavoratori che non erano più ritenuti utili alla produzione o semplicemente in sovrannumero. Questo è l’inizio, la fase aurorale del fenomeno che diverrà effettivamente dirompente dopo la crisi del 2007, la crisi cioè del debito sovrano degli Stati Uniti, che da noi impatta a partire dal 2008-2009 e che ovviamente produce ulteriori difficoltà nell’economia: il debito pubblico cresce in maniera esponenziale, si riducono le basi produttive del paese, cioè il numero delle industrie in attività ed i giovani non riescono più a trovare un posto di lavoro fisso. Viene avanti una nuova idea di lavoro, che non è più né stabile né geograficamente sempre localizzato nel medesimo luogo ma un lavoro mobile, precario, in cui c’è una sorta di movimento dettato dalle esigenze di una terziarizzazione sempre più avanzata. Tutti questi elementi insieme creano un impoverimento generale nella società e quindi una frattura tra i vecchi mediatori politici, cioè i partiti e la nuova realtà popolare.
D – Come si è tradotto tutto ciò di cui mi ha parlato nelle vite dei giovani ed in particolare, quale cambiamento ha potuto cogliere nei suoi allievi?
R – Evidentemente, mano a mano che venivano meno questi blocchi sociali solidi si trasformava contestualmente l’aspettativa dell’emancipazione: l’istruzione andava perdendo cioè effettivamente il ruolo di ascensore sociale e veniva vista come momento ormai di solo parcheggio. Gran parte degli studenti, a partire dagli anni 2000, percepisce che la laurea non offre più nessuna effettiva opportunità di lavoro dopo averla conseguita. Comincia la litania dell’ulteriore specializzazione e dei master, ovviamente anche lì con la presupposizione che tutto ciò potesse con un quid pluris di formazione, aprire una strada alla collocazione. Non sempre è stato così, anzi molto spesso nemmeno questo ha consentito l’entrata nel mondo del lavoro.
D – Parliamo un attimo di quanti in questa fase ce l’hanno fatta: ci sono riusciti solo ricorrendo a vie traverse?
R – Alcuni sì, per vie traverse, altri perché esiste anche una componente di imponderabile fortuna. Moltissimi, come dicevamo, però non ce l’hanno fatta. Tutto questo crea ovviamente un disagio profondo, ma resterebbe un interrogativo: perché però questo disagio, questa difficoltà di tipo economico, questa rarefazione dello stato sociale creano una koinè culturale che va verso destra? Io credo che ciò dipenda dal venir meno di un senso della identità forte. Quando si è tanto esposti, la tua identità è debole, tanto quella individuale quanto quella sociale e tutte le volte in cui questo accade crescono le forme di aggressività verso gli altri, proprio perché devi in qualche modo difenderti e ritieni di farlo creando una sorta di perimetro, di muro nei confronti di chi può esserti concorrente.
Così si conclude la prima parte di questa intervista. Nella seconda parte, che sarà pubblicata sul prossimo numero de “Il Sudest”, affronteremo col professor Spagnoletti le prospettive e gli scenari che la società dovrà affrontare nel prossimo futuro.
Rosamaria Fumarola
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