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Esteri

Anaic Mella di Ostia, evento 8 marzo 2023

I dati CENSIS sulla condizione femminile in Italia sono sconfortanti. Le donne sono le prime ad essere escluse dalle attività produttive.

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I dati CENSIS sulla condizione femminile in Italia sono sconfortanti. Le donne sono le prime ad essere escluse dalle attività produttive. Il loro potere d’acquisto è minore e ciò le espone al ricatto e all’esclusione definiva dalla produzione, al ritorno alla subordinazione femminile alla figura maschile. Il World Economic Forum con l’indagine Global Gender Gap Index ha documentato che, nel 2015,  su 145 Paesi, l’Italia si trovava al 41º posto per uguaglianza di genere. Nel 2017 è scesa all’82º posto, mentre recupera 12 posizioni nel 2018. Nel dicembre 2019 secondo il Global Gender Gap Report la sua posizione è al numero 76 su 153 paesi, con un punto di 0,707 su 1, a causa di alcune disuguaglianze in ambito politico. La posizione è comunque migliorata rispetto al 2006, quando il punteggio era dello 0,646 su 1. La partecipazione economica femminile si piazza però 87ª nel 2006 con un punteggio di 0,527 su 1 a 0,595 su 1 nel 2019. Il 55,7% delle donne in Italia partecipa alla forza lavorativa nel Paese. Il 27% dei manager e magistrati e ufficiali sono donne. Il 35,3% dei componenti del Parlamento nell’attuale legislatura sono donne, mentre solo il 27,8% dei ministri sono donne, l’11,94% delle donne sono disoccupate. Il Global Gender Gap Report 2021 posiziona l’Italia 63ª su 156 paesi esaminati per quanto riguarda la condizione femminile, con un punteggio di 0,721 su 1,000. Stessa posizione nel 2022. Nel mese di dicembre 2020, a causa della pandemia di Coronavirus, il 99% dei posti di lavoro perduti erano occupati da donne, contro l’1% dei posti di lavoro occupati da uomini Questa condizione è peggiorata con la crisi economica causata dall’emergenza sanitaria.
Per uscire da una logica meramente mediatica che si spegne allo scadere della mezzanotte, il circolo ANAIC “Julio Antonio Mella” vuole provare a dare il suo contributo di riflessione al tema nella giornata dell’8 marzo offrendo un approfondimento sul perché si parli di “modello cubano”, nonostante Cuba sia sotto embargo da decenni e sia considerato un paese del “terzo mondo”. Le donne cubane, durante il periodo pre-rivoluzionario, avevano raggiunto uno status più rispettabile nei confronti degli uomini, rispetto alle donne di qualsiasi altro paese dell’America Latina, con la possibile eccezione di Argentina e Uruguay.

Per quanto concerne i diritti politici, le donne cubane conquistarono il diritto al voto già nel lontano 1934. Entro gli stati latino-americani, solo le donne dell’Uruguay, del Brasile, dell’Ecuador ottennero il diritto di voto in precedenza. La quantità di aborti (spesso fatto in casa) e divorzi era tra le più alte di tutta l’America Latina. Per quanto concerne l’’istruzione, la percentuale di studentesse, dai cinque ai quindici anni era quasi pari a quella di studenti di sesso maschile. Secondo il censimento svoltosi a Cuba nel 1953, la percentuale di maschi analfabeti (26 per cento) superò quello delle femmine analfabete (21 per cento). Dentro l’America Latina solo Argentina e Cile avevano i più alti tassi di alfabetizzazione femminile (rispettivamente 85 per cento contro il 79 per cento). Ovviamente, nel periodo pre-rivoluzionario, la situazione ben diversa e più critica era quella delle donne rurali ed afrodiscendenti: destinate all’ analfabetismo, alla povertà ed all’ assenza di tutele e servizi igienico-sanitari adeguati. La Costituzione Cubana del 1940, fu una delle più progressiste nell’emisfero occidentale per quanto riguarda lo status delle donne, vietava la discriminazione sulla base del sesso e dichiarò un dovere, da parte dei datori di lavoro, la parità di retribuzione a parità di lavoro.

In sostanza la società pre-rivoluzionaria conservò determinate disuguaglianze estreme tra i sessi, in particolare tra le classi economicamente più svantaggiate. Ovviamente, le più sfavorite restarono le donne rurali poiché vivevano in segregazione, tra dure e interminabili giornate di intenso lavoro nei campi ed in famiglia, e non avevano contatti con la cultura e l’ economia nord-americana, una stile di vita che influenzò unicamente la borghesia cubana dei centri urbani.  Nonostante i diritti legali ottenuti dalle donne, relativamente avanzati, le donne pre-rivoluzionarie raramente ottennero importante cariche pubbliche e politiche, di una certa responsabilità. Quasi tutte le donne pre-rivoluzionarie, in politica o in uffici pubblici, si trovavano relegate principalmente in ruoli subordinati. Prima della Rivoluzione, la maggior parte dei cubani credeva che il posto della donna fosse esclusivamente la casa e la famiglia. In pratica, unicamente le classi superiori concedevano alle donne la sicurezza necessaria per concentrare tutta la loro attenzione alla famiglia, le donne della classe media tendevano ad emulare questo ideale, per quando possibile. Mentre le donne delle classi povere erano costrette a lavorare in condizioni di degrado e pericolo, spesso anche trascurando i loro figli. Entro la fine del 1940, tuttavia, la società cubana aveva accettato l’idea che le donne benestanti e delle classi medio-alte potessero scegliere di lavorare, anche in assenza di bisogno finanziario, a condizione che il lavoro si svolgesse in “ambiente professionale o burocratica rispettabile”. Mentre le donne delle classi inferiori, mentre erano a lavoro, le loro figlie più grandi lasciavano la scuola per sorvegliare i fratelli più piccoli. Questo contribuì a un alto tasso di abbandono scolastico tra le ragazze.

Senza alcun dubbio, le donne pre-rivoluzionaria a Cuba, serbarono una posizione inferiore nella forza lavoro. Nel 1943, per esempio, le donne facevano parte solo del 10 per cento della forza lavoro.

Ciò nondimeno, nel 1956/57 le donne cubane ottennero più sicurezza nel lavoro e più stabilità rispetto agli uomini e sono state meno colpite dalla disoccupazione. Alla vigilia della rivoluzione, il numero di donne nella forza lavoro si trovò in costante aumento, così come il livello di coscienza politica e sociale. Nel discorso pronunciato il 1° gennaio 1959, Castro concluse che le discriminazioni affrontate dalle donne nella società cubana fosse una delle questioni rivoluzionarie che richiedevano “più tenacia, fermezza, costanza e sforzo”. Da questo approccio, iniziò un percorso che portò le donne cubane a vincere sfide cruciali in tempi rapidi, anche grazie alle basi di partenza già avanzate. Difatti, le leggi che aboliscono la patria potestà, introducono il divorzio e il suffragio femminile nel Paese risalgono rispettivamente al 1914, 1917 e 1936.

Nel 1960 venne fondata la Federazione delle Donne Cubane (FMC), sintesi di circa 800 associazioni femminili pre-esistenti e strutturata come una vera e propria organizzazione di massa allo scopo di difendere le idee rivoluzionarie e i diritti delle donne cubane. Fondatrice e presidente della Federazione fino alla sua morte fu Vilma Espín, guerrigliera dell’esercito ribelle, membro del comitato centrale del Partito Comunista cubano e moglie di Raúl Castro. È stata l’immagine simbolo della guerrigliera e con la FMC – che oggi conta oltre cinquemila organizzazioni e 300 mila volontarie – si batté, tra le altre cose, per strutturare una rete di supporto alle donne lavoratrici (con gli asili e l’orientamento occupazionale). Tra i successi legislativi della Federazione ci sono la legge che ha depenalizzato l’aborto (prima in America latina, nel 1965) e quella che ha inserito nel codice penale il reato di discriminazioni basate sul genere (articolo 295), che aprì alle donne la porta di tutti gli uffici pubblici e tutte le gerarchie delle forze armate. L’elenco di donne che furono parte attiva della rivoluzione socialista e che parteciparono materialmente alla costruzione di quella che è l’attuale società cubana è consistente e chiaramente rappresentativo di un protagonismo dinamico e riconosciuto. Infatti, Fidel Castro, in chiusura della V Plenaria Nazionale della FMC dichiarò: “Se ci chiedessero cosa ci ha insegnato la Rivoluzione, risponderemmo che una delle lezioni più interessanti che noi rivoluzionari stiamo ricevendo è quella che ci stanno dando le donne”. A Cuba le donne hanno gli stessi diritti costituzionali degli uomini nel campo economico, politico, culturale e sociale, nonché nella famiglia, in base agli articoli 42 e 43 della nuova Costituzione Cubana. L’articolo 43, nello specifico, sancisce quanto segue: “La donna e l’uomo hanno uguali diritti e responsabilità in materia di economia, politica, cultura, lavoro, nel sociale, in famiglia e in qualsiasi altro ambito. Lo Stato garantisce che a entrambi i sessi siano offerte le stesse opportunità e possibilità. Lo Stato promuove il pieno sviluppo delle donne e la loro piena partecipazione sociale. Assicura l’esercizio dei loro diritti sessuali e riproduttivi, le protegge dalla violenza di genere in qualsiasi delle sue manifestazioni e spazi, e crea i meccanismi istituzionali e legali per questo”.

Presenti in ogni settore dell’economia, le donne sono una forza indispensabile per garantire il prospero sviluppo della nazione. Le donne cubane hanno un alto livello di istruzione e qualificazione professionale. Si distinguono nell’istruzione, nella sanità, nel commercio, nel lavoro agricolo e in altri settori.

Attualmente, più del 60% dei laureati a Cuba sono donne, una percentuale non troppo lontana occupa posizioni di leadership di alto livello, e le donne cubane dal trionfo rivoluzionario guadagnano come gli uomini, per la stessa attività.

Attualmente, le donne sono il 49 per cento della forza lavoro nel settore statale civile, il 49,6 per cento dei dirigenti, l’81,9 per cento dei professori, maestri e del personale scientifico, l’80 per cento degli avvocati, dei presidenti dei tribunali provinciali, dei giudici e del personale della sanità. Di pochi giorni fa è l’intervista della CNN alla Direttrice delle Ricerche Dagmar Garcia che spiega come oltre il 65 % del capitale umano del Instituto Finlay de Vacunas sono donne e il 75 % sono responsabili degli assi strategici legati allo sviluppo economico e hanno avuto un ruolo determinante nello sviluppo del vaccino contro il Covid-19.

Occupano il 53,2 per cento dei seggi nell’Assemblea Nazionale e il 48,5 per cento nel Consiglio di Stato, collocando la nazione al secondo posto al mondo per presenza femminile in Parlamento, mentre la media mondiale è solo del 24 per cento e la maggioranza della forza lavoro professionale è costituita da uomini. La donna a Cuba, riceve lo stesso salario di un uomo a parità di lavoro svolto, e non è una cosa scontata. In Italia ad esempio il salario ricevuto da una donna è il 43 per cento inferiore rispetto a quello ricevuto da un uomo se si considerano oltre la paga oraria anche altri parametri come l’occupazione femminile e le ore lavorate. Non è un caso, quindi, se già Fidel Castro definiva la questione femminile una “rivoluzione all’interno della Rivoluzione”. Dal trionfo della rivoluzione nel gennaio 1959, infatti, sono stati avviati i primi passi volti ad eliminare problemi come la prostituzione, la mancanza di pianificazione familiare, ed è stato adottato un codice di famiglia che stabilisce l’assoluta uguaglianza giuridica tra donne e uomini, tra gli altri.


Origine e sviluppo dell’ oppressione femminile

La condizione dello sfruttamento femminile è causata dal ruolo che è stato progressivamente affidato alla donna, nel corso della storia, determinando una perdita di posizioni di potere all’interno della produttività, in favore del ruolo prettamente riproduttivo e di cura. In occidente, a sinistra, la questione di genere è stata messa in secondo piano, bollata come non centrale rispetto alla questione “capitale-lavoro”. La distinzione tra “diritti sociali” e “diritti civili” spesso ha rappresentato un pretesto atto a giustificare un disinteresse nei confronti di questi ultimi, facendo sì che la questione femminile diventasse appannaggio di organizzazioni portatrici di visioni intersezionaliste e liberali, per loro natura incapaci di portare una più ampia riflessione organica sulla società.
Cuba può quindi considerarsi, a maggior ragione, in un area geografica a forte impronta machista, un paese all’avanguardia. La donna oggi subisce di fatto una doppia oppressione, la prima perché è costretta a subire le ingiustizie di un sistema fondato sul profitto di pochi a scapito di molti, e l’altra legata alla condizione di moglie e madre amorevole, dedita alla cura della casa, senza grandi opportunità di  emancipazione intellettiva, culturale, sessuale, politica e sociale, per una sua piena realizzazione.

In questo preciso  momento storico, l’influenza della cultura postmoderna, molto presente all’ interno degli ambienti della “sinistra occidentale”(la sinistra “moderata” o pseudo-rivoluzionaria: comunque lontana dal marxismo-leninismo), con la sua negazione della dialettica materialista, ha contribuito ad un ulteriore regressione dei diritti femminili. Nella cultura post-moderna, qualsiasi forma di oppressione (per quanto marginale e limitata) è ugualmente importante. Per i post-modernisti, legati alla “sinistra-occidentale” mainstream,  non è necessario trovare il l’ aspetto principale della contraddizione-sociale, bensìè fondamentale colpire duramente ovunque e nelle stesso momento. Nel movimento (pseudo) rivoluzionario della Germania Federale, questa dottrina ha trovato, fino ad oggi, espressione nello slogan “Unire le lotte!”. Le lotte, percepite come tutte “uniformemente rilevanti”, dovrebbero essere condotte simultaneamente, perché queste “lotte parziali” possano successivamente connettersi. Eppure, alla fine, ciascuno rimane preda della sua oppressione. Questa pseudo-strategia ci porta in un circolo vizioso e la logica conseguenza di questa teoria è l’intersezionalità, che convoglia finanche ad una assurda competizione per vedere chi è più oppresso in base ai “diversi meccanismi di oppressione”. La dottrina della “Tripla Oppressione” è stata sostenuta da personalità quali Judith Butler, che ha posto all’ordine del giorno la questione del “genere”. Nel momento in cui la Teoria della Tripla Oppressione continua a parlare di patriarcato, la Teoria di Genere non riguarda più il patriarcato ma il sessismo, vale a dire la questione del genere in quanto idea, non in quanto realtà materiale. Il termine “sessismo” sostituisce il termine patriarcato: la conseguenza politica e sociale di una simile teoria è l’ invisibilizzazione storica della  categoria “donna” (e la sua realtà materiale), nonché la realtà storica del patriarcato. Qualsiasi persona usi il termine sessismo nega l’oppressione patriarcale, perché non si parla più dell’oppressione delle donne, da parte degli uomini, ma dell’oppressione di tutte le varie forme di “genere”, che ripetiamo sono solo “costrutti”. Quindi esistono solo sulla base di un’idea creata precedentemente. Questa teoria di genere gioca poi un ruolo cruciale per quanto riguarda le questione LGBT ecc. Questo conduce alle “identity-politics”, oggi così diffuse e di cui si discute animatamente anche nei circoli borghesi, come conduce alla questione decoloniale, post-coloniale o al “Black Lives Metter” che si rifanno a queste concezioni. Per questi movimenti, il problema non è tanto promuovere la lotta di liberazione nazionale dei paesi oppressi, ma soprattutto quello di cambiare le idee della gente nei paesi imperialisti, cioè di imporre un cambiamento sulla base delle idee. Allo stesso modo, ai popoli dei paesi oppressi, viene anche negato il diritto all’unica effettiva soluzione  che elimini il loro sfruttamento e la loro oppressione. Questo perché non possono rivolgersi al marxismo o applicarlo, in quanto si presume che anch’esso sia fondato sull’Illuminismo Occidentale. Seguendo la premessa postmoderna di eliminare le “meta-narrazioni”, si nega l’applicabilità universale del marxismo. Per inciso, il marxismo si è rivelato particolarmente sentito e indispensabile per la lotta di liberazione nei paesi oppressi: l’esempio migliore è la rivoluzione in Cina, ma anche le lotte di liberazione in Corea e Vietnam e le odierne guerre popolari in Perù, India, Turchia e Filippine hanno messo al loro posto i post-colonialisti. Ricordiamo difatti uno dei principi basilari del marxismo: la questione non è interpretare il mondo, ma cambiarlo. I comunisti applicano il marxismo cambiando la realtà, e la guerra popolare è la forma più radicale di cambiamento materiale. E i pensieri sono anch’essi materiali. I post-colonialisti affermano che la decolonizzazione è una lotta ideologica, in parole povere una “lotta culturale”. Nella pratica politica, questo conduce a discussioni su chi sia autorizzato a parlare di un determinato argomento. All’improvviso, i comunisti e le forze progressiste nei paesi imperialisti non sono più autorizzati a mostrare solidarietà con le lotte dei popoli delle nazioni oppresse, non possono più utilizzare parole nella loro lingua perché questo sarebbe presunta “appropriazione culturale”. Allo stesso tempo, si propone il concetto di “comunità”, e di conseguenza c’è una comunità africana, una comunità ispanica, una comunità curda ecc. ecc. Ma queste rappresentazioni mentali creano o “costruiscono” qualcosa che nei fatti non esiste, poiché sono all’oscuro delle differenze di classe all’interno di queste presunte comunità; persino tra gli africani, ci sono borghesi, piccolo borghesi, lavoratori, intellettuali ecc. Queste presunte “comunità” spesso hanno poco in comune (e in più non esiste qualcosa come “gli africani”). Tra di loro ci sono differenti opinioni politiche e ideologiche, differenti interessi, sentimenti e posizioni di classe oltre che visioni del mondo, tra di loro ci sono fascisti, comunisti, progressisti ecc. Ci sono poi atei, cristiani, musulmani, agnostici ecc. Il criterio di associazione diventa dunque ciò che non dovrebbe giocare alcun ruolo: la presunta origine “razziale”, il colore della pelle.

L’arretramento della condizione femminile

L’influenza nociva e retriva del postmodernismo e delle identity-politics sta lasciando un’impronta chiaro anche nel movimento delle donne. Nel tempo in cui il postmodernismo si manifestava, per la prima volta, specialmente negli anni 60’, uno dei punti centrali del movimento femminile progressista era la negazione del ruolo tradizionale della donna. Le donne non dovrebbero sentirsi obbligate di indossare un reggiseno, radersi le gambe, accettare ruoli o ideali di bellezza “femminili”. Quantunque questo movimento fosse fortemente influenzato dalla piccola borghesia, i partiti comunisti vi esercitavano la loro influenza. Il postmodernismo ha detto quindi che tutte queste cose, il ruolo delle donne nella società, lo stesso genere, sono costrutti. Come affermato in precedenza, è nata la Teoria di Genere, nella quale la questione di una presunta “costruttività del genere” gioca un ruolo importante.

Questo comporta un problema per le odierne identity-politics, perché se non esiste un sesso biologico, come si definisce una donna? La risposta a cui giungono le identity-politics è che donna è chiunque è o sembra una donna (o sostiene di essere tale). Il movimento delle donne si è battuto proprio perché queste differenze di aspetto non esistessero. Oggi con le identity-politics, una donna si definisce per il fatto che si muove, si veste o si trucca come una donna. Un uomo transessuale che sostiene di essere una donna viene riconosciuto tale perché è “femminile” e perché si muove, si veste e si trucca come una donna. Ciò ha compromesso l’intero movimento di liberazione della donna negli ultimi decenni, svolgendo così un ruolo retrogrado nel movimento femminile. Come se non bastasse, un’idea delle identity-politics è che le minoranze marginalizzate possono prendere termini degradanti e discriminatori e reinterpretarli a loro piacimento, “utilizzandoli positivamente”.  Questo fa sì che improvvisamente ci siano alcune persone, nel movimento delle donne, che sostengono che chiamarsi “puttana” o “stronza” tutto il tempo sia una forma di empowerment, invece di prendere a calci papponi e altri porci patriarcali. Insomma: “risignificare” positivamente il termine “puttana” farebbe parte del movimento di liberazione della donna. Queste posizione postmoderniste, che emergono dall’analisi del discorso e attribuiscono al linguaggio la capacità di creare la realtà, si esprimono anche nelle acrobazie del linguaggio di genere con tutti i suoi asterischi, punti e Binnen-I. A cosa conduce tutto ciò? A un cambiamento nella situazione delle donne? Alla distruzione del patriarcato? Sventuratamente no, perché ciò richiede la lotta contro il sistema imperialista. Ciò a cui conduce in realtà è ad un’eterna discussione accademica su quale linguaggio sarebbe più “inclusivo” per rendere le donne “visibili”, senza far avanzare di un solo passo la lotta contro l’imperialismo e il patriarcato, ma al contrario frammentando ulteriormente il movimento delle donne e rendendo chi non usa il genere appropriato il bersaglio preferito di rimproveri moralisti evangelici. Se le donne vogliono diventare veramente “visibili”, l’unica garanzia è l’azione militante diretta, guidata dall’ideologia del proletariato.

Riepilogando: per attuare la sua idea, il postmodernismo ha dato i natali alle identity-politics. Per dirla meglio, le identity-politics sono un ulteriore passo verso la crescente decadenza dell’idealismo borghese nelle sue manifestazioni “di sinistra”, come espressione della decadenza ideologica dell’imperialismo, che si trova in un processo di decadimento crescente. È idealismo perché, nella tradizione dell’Analisi del Discorso e del postmodernismo, si mette al primo posto l’idea e non la realtà materiale realmente esistente della società umana, che viene trasformata dalla lotta di classe. Attualmente, quando presunti gruppi comunisti, organizzazioni e partiti adottano aspetti di questo idealismo borghese, sono naturalmente solo revisionisti. Infatti, essi introducono di nascosto punti di vista borghesi nell’ideologia del proletariato internazionale e la rifiutano in quanto sistema autonomo, omogeneo e onnipotente in quanto vero. Vero perché confermato continuamente dalla pratica.

Ne parleremo l’8 marzo presso la Biblioteca Elsa Morante con la filosofa Maddalena Celano, scrittrice, studiosa e docente, responsabile del Dipartimento Esteri di Convergenza Socialista, collabora con l’Ass. Para un Pricipe Erano, con l’ Ass. Iroko e la Presidenza dell’Ass. la Villetta per Cuba. Profonda conoscitrice della condizione della donna, soprattutto in America Latina, ha scritto diversi saggi sull’argomento. Ha dato alle stampe anche un saggio sulle donne cubane: Donne cubane: l’altra metà della Rivoluzione, CTL Edizioni-Libeccio, Livorno, 2020.

Interverrà l’Ambasciata cubana.

Modera: Sabrina Deliggia

Interviene anche la cubana Olga Lidie Priel Herrera dell’ Ass. Para un Principe Enano