Scuola
La scuola del censo e delle etnie
di LAVINIA ORLANDO
Differenziazione e segregazione etnica, economica e sociale dovrebbero essere dei rischi del tutto banditi dal sistema di istruzione italiano.
La scuola, infatti, soprattutto quella dell’obbligo, è uno dei primi strumenti attraverso i quali raggiungere l’obiettivo dell’uguaglianza dei punti di partenza di cui al secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione.
Tale disposizione prevede che spetta allo Stato l’eliminazione di tutti quegli “ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Alla luce di tale principio fondamentale del nostro ordinamento, le scuole rappresentano di certo il luogo di maggiore impatto al fine di consentire a bambine e bambini di superare qualsivoglia gap derivante dai contesti di provenienza.
Autorevoli studi e ricerche dimostrano come lo strumento più efficace ai fini del raggiungimento di livelli di apprendimento indipendenti dagli ambiti socio-economici di origine sia proprio quello della eterogeneità delle classi, che in tanto favoriscono la crescita dei frequentanti, in quanto assicurino la presenza il più variegata possibile di studentesse e studenti.
Questo era ciò che accadeva nella scuola italiana, almeno fino a quando gli istituti scolastici non si sono trasformati, ex lege, in aziende ed i genitori non hanno avuto totale libertà nella scelta della scuola presso la quale iscrivere i propri figli. A partire da tale ideale linea di demarcazione, le scuole di qualsiasi ordine e grado hanno iniziato a competere al fine di raggiungere il più alto numero di iscritti, utilizzando argomentazioni non sempre rispettose di quella che dovrebbe essere la loro missione fondamentale, quella educativa.
Si verificano, così, fenomeni incresciosi: i genitori appartenenti a classi sociali più abbienti e con livelli di istruzione più elevati tendono ad iscrivere i propri figli nelle medesime scuole, magari anche lontane dai luoghi di lavoro, che possono, tuttavia, facilmente raggiungere disponendo dei mezzi economici per farlo. Di contro e di conseguenza, alunne ed alunni provenienti da ambienti più umili ed a minore scolarizzazione (tra i quali vanno ricompresi gli stranieri) si ritrovano autosegregati negli stessi istituti, per carenza sia di informazioni che di mezzi economici per poter consentire la medesima scelta assicurata alla prima fascia considerata. Quest’omogeneità, sui cui frutti non propriamente positivi si è già riferito, risulta essere il risultato della forte competizione in essere tra i vari istituti, la cui differente offerta formativa è altresì conseguenza della maggiore o minore presenza di iscritti provenienti da famiglie abbienti, più o meno in grado, a seconda dei casi, di contribuire con laute donazioni capaci di rendere più o meno appetibile l’immagine degli istituti scolastici, così andando sempre maggiormente a demarcare le c.d. scuole dei ricchi da quelle dei poveri.
Se è vero che c’è sempre stata la malsana abitudine non ufficializzata di comporre classi di “serie A” e classi di “serie Z”, la scuola del 2020 ha superato se stessa, ufficializzando la segregazione nella maniera più evidente possibile, ossia attraverso lo strumento informatico.
Si tratta di quanto avvenuto con riferimento ad un Istituto Comprensivo romano, sul cui sito è comparsa una presentazione che sarebbe riduttivo definire da brividi: alunne ed alunni distinti in base alla classe sociale di provenienza (“la sede di via Trionfale ed il plesso di via Taverna accolgono alunni appartenenti a famiglie del ceto medio-alto, mentre il plesso di via Assarotti accoglie alunni di estrazione sociale medio-bassa”, era possibile leggere sul sito dell’Istituto) ed in base alla nazionalità (“il plesso di via Assarotti…conta, tra gli iscritti, il maggior numero di alunni con cittadinanza non italiana; il plesso di via Vallombrosa…accoglie, invece, prevalentemente alunni appartenenti a famiglie dell’alta borghesia assieme ai figli dei lavoratori dipendenti occupati presso queste famiglie – colf, badanti, autisti e simili”, continuava la presentazione in oggetto).
Tale meticolosa descrizione ha suscitato, per fortuna, l’indignazione bipartisan di molti esponenti della politica nostrana, partendo dalla Ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, che ha definito la scelta dell’istituto priva di senso, in quanto “la scuola dovrebbe sempre operare per favorire l’inclusione”, fino a giungere al Presidente dell’Associazione Presidi Lazio, Mario Rusconi, che ha giustamente definito l’inclusione sociale come “la chiave del successo formativo”.
A fronte delle polemiche generalizzate, la scuola incriminata ha rimosso le parti di cui si discorre, lasciando il solo riferimento alla “disomogeneità della tipologia dell’utenza che appartiene a fasce socio-culturali assai diversificate” e motivando le indicazioni successivamente cancellate come “una mera descrizione socio-economica del territorio”, richiesta, sempre secondo l’istituto in questione, dalla normativa vigente.
Sebbene l’eliminazione delle frasi incriminate possa far pensare alla chiusura della vicenda, l’accadimento deve servire ad aprire un dibattito circa la condizione del sistema di istruzione italiano, la sua capacità di incidere in ordine alla crescita culturale del Paese e la sua efficacia nel riuscire a ridurre le distanze tra gli utenti, verificando se le riforme adottate nel corso degli anni, partendo dalla progressiva trasformazione della scuola pubblica in azienda privata, abbiano portato benefici o, come pare essere, solo conseguenze negative.