Inchiesta
Bombe su Leopoli o Psyops?
Mentre si aspetta di vedere cosa succederà, migliaia di profughi hanno ripreso a muoversi verso la frontiera polacca. Anche l’Ambasciatore della Corea del Sud ha lasciato il paese. Quello italiano invece è rimasto e, dice qualche giornalista, finché rimane lui non c’è pericolo.
Di Benedetta Piola Caselli
Mentre scrivo sta suonando, per la terza volta da stamattina, l’allarme antiaereo.
Io sono chiusa in albergo perché ieri ho avuto la febbre, e i due foreign fighters cinesi che avevo intervistato per Il “Sud-Est” mi hanno scritto di avere il covid.
Sarò stata contagiata?
In attesa di saperlo, non posso scendere al rifugio per paura di infettare altri, specialmente anziani e bambini; né posso partire e mettermi in salvo in Polonia, perché dovrei viaggiare sui mezzi pubblici e sarei quindi un rischio per chi viaggia con me.
Nessuno mi affitterà una macchina; se prendessi il taxi – a parte il costo proibitivo – dovrei fare una coda di 10 ore per passare la frontiera.
Non c’è che da aspettare, quindi.
Ma sono in pericolo davvero?
Mentre resto stravaccata sul mio letto, non posso fare a meno di chiedermelo e di raccogliere le idee, perché i media stanno mistificando la realtà, e la stanno mistificando in modo grossolano.
Per esempio: suona l’allarme ma nessuno si affretta verso i rifugi. La vita in strada continua normale.
Come mai?
Cominciamo con il dire che Leopoli non è mai stata bombardata.
Lo so: i media hanno detto altro o, nei casi di malafede più raffinata, lo hanno lasciato intendere, giustapponendo immagini che non erano di Leopoli a dei testi volutamente ambigui.
Lo hanno fatto quasi tutti.
Ma quello che è successo è banale: sono stati bombardati due capannoni nella zona dell’ aeroporto (non l’aeroporto) senza alcuna vittima e senza danni significativi.
Ma perché?
Le tesi sono varie.
La prima è che i capannoni rappresentassero un obiettivo militare perché ci si riparavano gli aerei; solo che, si obietta, l’attività era cessata da tempo: i russi avrebbero avuto delle informazioni sbagliate, a causa di un’intelligence non all’altezza.
Sostanzialmente, starebbero bombardando sulla base di una lista di target ormai datata, perché
sarebbero un po’ scemi.
La seconda è che i capannoni rappresentassero un obiettivo militare perché ospitavano un centro di raccolta e smistamento di armi.
Ovviamente nessuno lo sa con certezza – questo è un vero segreto militare – ma la possibilità non scandalizza, e anzi è bene accolta: che le armi arrivino da tutto il mondo è fatto noto, e come conseguenza logica devono essere ricevute e diffuse da qualche parte.
Insomma: i russi avrebbero colpito giusto, e pazienza.
La terza è che i missili fossero diretti sull’aeroporto e poi abbiano fatto cilecca, o perché deviati dalla contraerea o perché qualcosa nel lancio/funzionamento è andato storto.
E qui c’è chi pone l’enfasi sulla perizia dell’esercito ucraino – secondo le fonti del governo i missili sarebbero stati sei, di cui almeno due abbattuti – e chi sottolinea invece che le armi russe fanno schifo o, in termini più aulici, non sono né moderne né efficienti, contrariamente a quello che sostiene la vulgata.
Al di là del merito – cioè di chi abbia ragione o torto – il dibattito sul tema è interessante come dato sociologico, perché mi sembra riflettere, a grandi linee, le fasce di età e quello che si ricorda dell’ex impero sovietico.
Una buona parte degli ucraini – specialmente i senior citizens – confida molto nell’aiuto straniero, probabilmente perché mentalmente identifica l’esercito russo con quello dell’ex Unione Sovietica : l’Ucraina, per quanto eroica, ha bisogno del sostegno internazionale per poter sopravvivere al confronto con un gigante. Questa parte sostiene la tesi del magazzino di stoccaggio delle armi internazionali che, seppur distrutto, dimostra un interesse attivo delle altre nazioni nel conflitto.
La fascia di età dei 50-60 enni, invece, ricordando la fine dell’impero sovietico e le cause della sua dissoluzione, ha un’opinione diversa, e crede soprattutto che l’obiettivo sia stato mancato per il cattivo stato delle armi o per la loro obsolescenza.
E’ un refrain che sui media locali si sente spesso, ed è sempre collegato al ricordo di un’Unione Sovietica dal sistema corrotto ed inefficiente, in cui tutti rubavano se appena ne avevano la possibilità: secondo questa narrazione, l’esercito russo non sarebbe affatto potente ma, al contrario, sarebbe ridotto alla fame, usurato e ridotto in miseria dalla disonestà dei suoi gradi più alti.
La fascia dei 30-40 anni sembra concordare sugli errori, ma ritiene che, furti e corruzione a parte, il nemico abbia un potenziale bellico imponente, e l’errore sia dovuto alle deficienze dell’intelligence nemico.
I giovani, infine, danno piena fiducia al loro esercito: i russi avrebbero armi sofisticatissime, ma la perizia e l’eroismo dell’esercito ucraino li starebbe riducendo all’impotenza.
Questa differenza di opinioni è anche dovuta al fatto che le informazioni ufficiali sull’andamento della guerra sono spesso inesatte, esagerate, o difficilmente credibili, e che le alimentano, alternativamente, tutte quante.
C’è un dato però che accomuna tutti gli ucraini, almeno fino ad ora, e cioè la fede nell’ineluttabilità della vittoria.
Occorre dire che, effettivamente, l’Ucraina ha mostrato una capacità di resistenza inattesa, e il conflitto non si sta rivelando semplice come Putin l’aveva previsto.
Al contrario: più passano i giorni, più gli ucraini acquistano meriti militari agli occhi di un mondo ormai sbigottito.
Il gigante russo ha forse piedi d’argilla?
Però c’è un però.
Il fatto che la Russia non abbia preso le grandi città in modo rapido e inarrestabile – cioè che non le abbia bombardate per via aerea – è chiaramente il segno che non lo vuole fare.
Almeno, che non lo voleva fare all’inizio.
Ora che si trova impelagata in una guerra di terra che non dà i frutti sperati, la strategia potrebbe cambiare.
A questo punto, con il grado di coinvolgimento a cui si è arrivati, è difficile che Putin si tiri indietro, e l’unico modo per uscire dall’ impasse da vincitore è aumentare la violenza contando sull’inerzia della NATO.
Un bombardamento aereo sulle grandi città, coinvolgerebbe anche Leopoli, perla di bellezza, patrimonio dell’Unesco?
Ovviamente sarebbe una provocazione importante, che potrebbe cambiare completamente lo scenario di guerra.
Qui ci si dice di no, e si argomenta: la città è sede della diplomazia, delle organizzazioni umanitarie, della stampa internazionale.
Non può avvenire, a meno che Putin non sia pazzo – e nessuno dà veramente Putin per pazzo, almeno fra gli esperti di settore.
Di questo sono convinti anche quasi tutti gli abitanti della città, ed è per questo che nessuno si spaventa al suono ricorrente delle sirene d’allarme – con l’unica eccezione degli asiatici, che hanno già sgomberato il campo piano piano.
Ma se non c’è pericolo, come spiegare le continue air-alerts che svegliano la popolazione almeno due volte per notte?
La tesi ricorrente è che questo faccia parte della guerra psicologica, del lento logoramento che si gioca sia sulla popolazione sia sugli osservatori occidentali.
Il senso è quello di creare tensione sia sulla cittadinanza, così costretta a lasciare la città e rifugiarsi in Europa, sia fra gli stranieri e in particolare i giornalisti, così da spingerli a scrivere articoli fortemente enfatici che smuovano l’opinione pubblica mondiale.
Speriamo che sia così.
Per quanto la guerra psicologica sia fastidiosa, è imparagonabilmente meglio di un missile che cada da qualche parte.
Mentre si aspetta di vedere cosa succederà, migliaia di profughi delle altre parti del paese – poco convinti della tranquillità dei cittadini di Leopoli – hanno ripreso a muoversi verso la frontiera polacca. Anche l’Ambasciatore della Corea del Sud ha lasciato il paese.
Quello italiano invece è rimasto e, dice qualche giornalista, finché rimane lui non c’è pericolo.
Normalmente gli italiani sono bene informati.
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