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Israeliani e palestinesi: la narrazione è parte del conflitto 

La narrazione della tragedia degli ostaggi israeliani si serve di nomi e cognomi, quella della tragedia palestinese è un racconto di morti indistinte le une dalle altre, avvenute in luoghi perfettamente identici tra loro, in cui i corpi delle vittime sono poco più che cose, macerie tra altre macerie.

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Credit foto ANSA.it

Noah è tornata a casa. È stato straziante assistere al suo sequestro e commovente vederla sorridere finalmente libera, questa giovane donna che al suo ritorno a casa ha potuto riabbracciare una madre perdipiù ormai morente a causa di un cancro allo stadio terminale. Bentornata Noah. Forse un giorno ci parlerai del tuo punto di vista sulla barbarie di questo eterno conflitto di cui sei stata anche tu vittima e ci dirai se pensi alle centinaia di morti che Netanyahu ha ritenuto doveroso fare nell’operazione per la liberazione degli ostaggi, al solo scopo di garantirsi l’appoggio degli israeliani ormai disillusi.

Il problema, a mio avviso il più grave è infatti proprio questo ritenere oltraggioso oltre ogni misura il rapimento di cittadini israeliani, il cui valore di occidentali impedisce loro di essere posti sullo stesso piano delle vittime palestinesi, una indistinta carne da macello, priva di nomi e cognomi. Il mondo piange queste vittime senza riconoscere ad esse la dignità di individui (dunque un pianto più generico e meno impegnativo) come per i morti nel mediterraneo, colpevoli di sognare una vita migliore per sé ed i propri figli. La storia anche solo di uno di essi, se occidentale, ne farebbe un eroe nazionale ed invece ciascuno di questi esseri umani è gravato anche dalla colpa di aver sognato, perché per governi  quale il nostro desiderare ciò che noi abbiamo rappresenta una minaccia da cui difendersi con la forza. L’occidente tiene infatti alla sua condizione di benessere e per farlo ricorre di necessità ad una narrazione che implicitamente vede i più sfortunati, se non come inferiori (pretesto abusato fino alla fine del secondo conflitto mondiale ed oggi improponibile) come gravati da una colpa, motivata dalla violazione di insulse disposizioni di legge, emanate all’occorrenza da governi in nulla dissimili da quelli del secolo scorso.

Il conflitto israelo-palestinese è da solo infatti la prova paradigmatica del conflitto tra occidente ed oriente che attraversa l’intero globo terrestre e gli israeliani sono tra i più feroci difensori della differenza tra le due realtà, perché hanno sperimentato la subalternità e non sono disposti a vivere ancora quello status, sfociato poi nella shoah. L’orgoglio di far parte della comunità occidentale, conquistato da troppo poco tempo,  legittima così qualsiasi barbarie e non solo ai loro occhi,  ma anche ai nostri. L’occidente in fondo ha bisogno di cani da guardia di cui  si serve esattamente come di tutti i popoli che considera sudditi, inferiori utili solo per essere sfruttati. 

La cecità criminale di Netanyahu serve dunque all’Occidente come il capo` nei campi di concentramento nazisti. Se a taluni questo parallelo spiace se ne può fare a meno, ma la realtà attuale non cambierebbe di una sola virgola. 

Torniamo ai fatti da cui siamo partiti.

La narrazione della tragedia degli ostaggi israeliani si serve di nomi e cognomi, quella della tragedia palestinese è un racconto di morti indistinte le une dalle altre, avvenute in luoghi perfettamente identici tra loro, in cui i corpi delle vittime sono poco più che cose, macerie tra altre macerie. A ciò contribuisce certo una condizione di vita, una cultura,  anche religiosa, molto lontane da noi, ma siamo sicuri che per la loro gran parte queste non trovino ragione nella povertà di cui Israele e l’occidente sono anche causa? E siamo poi certi che nella condizione dei palestinesi noi non agiremmo allo stesso modo, restando su una terra maledetta, che è però la sola cosa possibile da fare per rivendicare il diritto di esistere?  La verità è che l’essere umano si rende da secoli autore dei medesimi atti, dimostrando che nessuno può rivendicare una superiorità morale che lo faccia migliore degli altri.

La verità passa per le storie degli individui, di cui il potere da sempre si serve attraverso un uso infondo banale della propaganda che narra differenze di cui le masse si convincono perché ne hanno bisogno, per sopravvivere ad una vita ricca solo di ingiustizie, delle quali vendicarsi non con chi ne è la causa immediata, ma con chi non può difendersi e che dunque non può nuocere ad alcuno.

Nel conflitto tra israeliani e palestinesi, questi ultimi, in quanto privi di mezzi,  subiscono tutta la barbarie di cui l’occidente ha bisogno per esistere. Non si dimentichi che Roma antica si fondò su un’economia di tipo schiavista per arrivare alla sua massima potenza e che dunque gli esseri umani senza uno sfruttamento dei loro simili non riuscirebbero ad accaparrarsi in modo esclusivo le risorse disponibili ed il loro godimento. Questa elementare strategia è presente identica a sé stessa da sempre nella storia. È raccontato per l’ennesima volta anche dal regista de “La zona d’ interesse” Jonathan Glazer, premiato con un meritato Oscar non più tardi di qualche mese fa ad Hollywood e fatto oggetto di una feroce critica da parte della comunità ebraica di cui pure fa parte, per aver sostenuto pubblicamente la causa palestinese durante la cerimonia di premiazione dei migliori film dell’anno. La pellicola racconta la barbarie della contiguità tra la realtà del gerarca nazista Rudolf Hosse e della sua famiglia con quella concetrazionaria di Auschwitz. Dopo la visione il messaggio dell’opera emerge in tutta la sua chiarezza: mentre si gode di uno stato di eccezionale benessere chi sta pagando per consentirlo? È ovvio che le parole del regista durante la sua premiazione, volte a chiedersi chi oggi paghi per permettere la nostra condizione privilegiata  siano un naturale completamento di quell’interrogativo. Gli ebrei d’Israele, proprio a causa della loro storia peculiare, potevano essere l’occasione per costruire un percorso diverso da chi li ha preceduti ed invece hanno seguito pedissequamente il vecchio solco tracciato nel sangue dai propri aguzzini e, come i nazisti pretesero per ogni morto nell’attentato partigiano di Via Rasella dieci italiani da condannare a morte nelle Fosse Ardeatine, allo stesso modo hanno ritenuto legittimo sacrificare centinaia di vite palestinesi per salvare quattro cittadini israeliani. La sperequazione racconta nei fatti ancora una volta la rivendicazione di una superiorità decisa da un folle ambizioso, assetato di sangue per cui uno non vale uno.

Rosamaria Fumarola 

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Giornalista pubblicista, scrittrice, critica jazz, autrice e conduttrice radiofonica, giurisprudente (pentita), appassionata di storia, filosofia, letteratura e sociologia, in attesa di terminare gli studi in archeologia scrivo per diverse testate, malcelando sempre uno smodato amore per tutti i linguaggi ed i segni dell'essere umano