Attualità
Salman Rushdie, un uomo solo di fronte alla condanna
Siamo tutti ancora scossi da quanto è accaduto allo scrittore Salman Rushdie pochi giorni fa, quel tentato omicidio che purtroppo lascerà sul suo corpo segni che il tempo non potrà sanare.
Per chi appartiene alla mia generazione la vicenda di Salman Rushdie è nota sin dall’origine: nel 1989 l’Ayatollah dell’Iran Khomeini lanciò contro lo scrittore una fatwa, una sorta scomunica per il modo irrispettoso con il quale secondo Khomeini, Rushdie aveva scritto del profeta Maometto nel suo quarto romanzo “Versetti satanici”. Con tale scomunica si autorizzava qualunque credente nella fede islamica, in qualunque luogo ed in qualunque momento ad assassinare lo scrittore, bolla rinnovata nel corso degli anni, al punto da considerarsi cogente per la comunità islamica ancora oggi. All’epoca parve a tutti una barbarie e solidarizzare con quell’ intellettuale non fu difficile. Per molto tempo la sua fu una vita blindata ma, com’è ragionevole, non poteva esserlo per sempre e così la fatwa ha avuto la sua realizzazione concreta nel momento in cui non la si riteneva più una concreta minaccia. Personalmente consideravo serio l’avvertimento e comprendevo che l’esistenza a cui Rushdie era condannato sarebbe stato un vero e proprio supplizio, una persecuzione ingiusta per un qualunque essere umano. La interpretavo guardando alla pura e semplice vita dell’uomo e non a quella dello scrittore. Peraltro Rushdie, quand’anche lo avesse voluto, non avrebbe più potuto rimediare e redimersi dalle presunte colpe di cui la comunità islamica lo riteneva responsabile, cosa che rendeva la vicenda antitetica rispetto a qualunque tentativo dell’uomo di aspirare ad una forma anche minima di giustizia.
Da quel lontano 1989 molte volte ho pensato a Rushdie, sollevata dal fatto che la scomunica si fosse risolta in una questione in apparenza “formale”, sgradevole certamente, ma priva di quell’ esito tragico che in essa si annunciava. Qualche giorno fa tutti abbiamo appreso che l’assurda fatwa lanciata in quel lontano 1989 da Khomeini aveva trovato il suo tempo perfetto per realizzarsi. A New York, durante un evento letterario Rushdie è stato accoltellato sul palco da un giovane di origini libanesi.
Un uomo, prima ancora che uno scrittore, ha visto dunque su di sé realizzarsi una condanna che nessuno ha potuto combattere o almeno tentato di osteggiare.
È infatti la solitudine in cui Salman Rushdie ha sempre dovuto vivere il discrimine vero tra la sua vicenda e le tante altre pur drammatiche che hanno trovato e trovano posto in occidente quanto in oriente: contro lo scrittore una fetta intera del mondo ambiva solo a veder scorrere il suo sangue. È opportuno ricordare che la condanna dell’ Ayatollah ha mietuto altre vittime nel tempo, tutte legate in qualche modo alla pubblicazione di “Versetti satanici”: nel luglio del 1991 a Tokyo il traduttore giapponese Hitoshi Igarashi venne assassinato. Ettore Capriolo, che si era occupato della traduzione in italiano e l’editore norvegese William Nygaard, seppure feriti riuscirono tuttavia a salvarsi dagli attentati orditi nei loro confronti dalla comunità islamica. Anche Rushdie sopravviverà, ma perderà un’occhio.
A noi occidentali continua a sembrare lontanissimo un potere politico che per affermarsi ha bisogno di compiere omicidi. È però di tutta evidenza che colpire un intellettuale per legittimare qualcosa che è per noi pur incomprensibile è fin troppo facile: l’intellettuale non dispone infatti di eserciti, perché la sua forza la misura altrove. E quindi è giunto il momento di capire che il solo strumento per difendersi da un’ideologia oscurantista è la cultura e che il modo, l’ unico per tentare di risarcire Salman Rushdie è leggere i suoi libri. A Khomeini, per le sue strumentalizzazioni politiche, non serviva che un capro espiatorio, il valore dell’intellettuale da colpire non era poi così importante quanto invece la volontà di colpire e di farlo ritenere un fatto necessario. Lo scrittore angloindiano è invece da un punto di vista squisitamente letterario considerato un genio. Conoscerne i capolavori è necessario per restituirgli quel posto a cui da sempre ha diritto, magari partendo proprio dalla lettura di quei “Versetti satanici” per la scrittura dei quali gli è quasi costata la vita.
Rosamaria Fumarola
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