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Riflessioni intorno al rapporto tra l’uomo moderno ed i tragici greci

Quanto siamo noi oggi, nella realtà in cui viviamo, lontani dai personaggi di Eschilo o di Euripide? O meglio ancora sarebbe domandarsi se siamo poi così lontani dai personaggi di Eschilo ed Euripide, dal loro riuscire a contemperare la responsabilità delle nostre scelte con quella che i greci chiamavano “tyche” e cioè il destino.

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Quanto siamo noi oggi, nella realtà in cui viviamo, lontani dai personaggi di Eschilo o di Euripide? O meglio ancora sarebbe domandarsi se siamo poi così lontani dai personaggi di Eschilo ed Euripide, dal loro riuscire a contemperare la responsabilità delle nostre scelte con quella che i greci chiamavano “tyche” e cioè il destino.

Posto che ciò che conosciamo della tragedia greca è ciò che altri decisero di salvare, per ragioni che è difficile immaginare scevre da un qualche interesse, ma considerando che sarebbe da ingenui immaginarsi gli esseri umani privi di un fine in tutto ciò che ne muove le azioni (anche noi mentre ci accingiamo a speculare sull’argomento in questione), converrà rassegnarsi ed accettare il fatto che nelle umane ricerche siamo per forza di cose costretti sempre a navigare a vista. Nonostante ciò, optare per un’abdicazione, decidere di non indagare, sarebbe sbagliato, perché ci priverebbe di tutto ciò che l’uomo produce, che è sempre un’inestricabile ed affascinante mistura di contraddizioni, talvolta profondissime.

Dunque, tornando a quanto delle tragedie greche ci è dato di sapere, tutti quelli che prima o poi nella propria esistenza vi si sono imbattuti, non hanno potuto non sentirsene vicini, al punto tale che le leggiamo ancora e sempre ci piace vederle rappresentate. 

Eppure in esse ci si imbatte di frequente in interventi divini che cozzano con ciò che riterremmo essere ragionevolmente credibile. In Eschilo ad esempio, i personaggi appaiono spesso come semplici burattini nelle mani degli dei, almeno ad una lettura superficiale ed è questa la ragione per la quale il grecista Albin Lesky ritenne che essi non avessero  avuto nella cultura occidentale lo stesso successo dei personaggi tormentati e mai risoluti nel loro agire di Euripide, così vicini invece alle fragilità dell’uomo moderno. Va precisato che l’etica di Euripide è un’etica diversa da quella di Eschilo, che è espressione di istanze non più aristocratiche ma borghesi, nelle quali  facciamo ovviamente meno fatica ad identificarci, ma aldilà di questo, in tutti i tragici sono presenti interrogativi che ancora oggi dominano le nostre esistenze, come ad esempio la questione della responsabilità nelle azioni o di quanto riusciamo ad essere davvero noi artefici del nostro destino. Infondo, banalmente, quando taluni personaggi tragici invocano gli dei, talvolta questi intervengono in loro soccorso, altre volte no ed è questa un’esperienza non dissimile da quella che qualunque uomo può nella sua vita fare, tanto che creda in un essere superiore che governi il suo agire, quanto che non ci creda.

È dunque forse questa la grandezza della tragedia greca: indipendentemente da come la si pensi teleologicamente, i suoi personaggi vincono o perdono come noi e sono vittime o carnefici a volte per proprie colpe, altre volte senza che una responsabilità individuale esista, anche perché il mondo delle divinità greche appare in linea di massima più simile a quello umano di quanto non accada ad esempio nella tradizione cristiana, in cui Dio è giusto, infallibile ma soprattutto privo dei nostri difetti.

Un’ altra sostanziale differenza tra le due religioni è che quella cristiana è “rivelata” e dunque qualunque opera letteraria o meno che l’abbia ad oggetto non potrebbe permettersene un’interpretazione o le variazioni di narrazione che qualsiasi autore greco poteva concedersi quando attribuiva ad una divinità prerogative o reazioni diverse da quelle che un altro autore gli attribuiva, operando in maniera creativa dunque anche in questa materia.

Ad ogni modo gli dei sono presenti in tutte le civiltà dell’uomo e ce lo dicono i reperti archeologici. Rimane però legittimo domandarsi cosa si aspettasse esattamente dall’ intervento divino un greco che formulasse  delle richieste ad esempio ad Atena, richieste che non dovevano poi essere così diverse da quelle di un qualsiasi credente in una qualsivoglia divinità.

Una cosa può senz’altro essere sottolineata: quel fedele si aspettava dall’aldilà che il proprio credo gli assicurava, qualcosa di diverso da ciò che noi ci aspettiamo e questo ce lo dice sempre la gran mole di reperti archeologici che troviamo nelle necropoli. Che questo fosse il risultato di un’abile strumentalizzazione della religione, come avveniva più esplicitamente a Roma, dove lo storico greco Polibio ci riferisce fosse usata dai politici come instrumentum regni, non ci è dato sapere, anche se in Grecia il rapporto con il divino sembrerebbe meno strumentalizzato di quanto sembrava avvenire nella civiltà romana.

Una riflessione sul rapporto col divino presente nella tragedia greca è comunque inevitabile proprio a causa della massiccia presenza in essa delle divinità e della loro continua interazione, nonché interferenza con i personaggi, ma con tutta evidenza ciò che ci rende questi ultimi tanto vicini non è la concezione del sacro. L’empatia che proviamo per Antigone nasce e non può che risiedere altrove e cioè in  ciò che universalmente caratterizza tutti gli uomini di tutti i tempi: i loro istinti ed i loro sentimenti. Questo è vero al punto tale che Sigmund Freud ritenne che in quelle opere fossero stati fissati in maniera compiuta ed una volta per tutte sentimenti come l’amore, la gelosia, il dolore e ne fu convinto al punto tale da chiamare alcune reazioni o momenti di crescita psicologica nell’esistenza degli esseri umani con espressioni come “complesso di Edipo” o “complesso di Elettra” evidentemente mutuate dalla tradizione tragica.

Ergo, ciò che con certezza possiamo affermare è che lo straordinario patrimonio della tragedia greca mette in scena i nostri sentimenti, che è questo ad avvicinarcelo e che è questo ciò che ci consola nel vederlo rappresentato, consentendoci una sorta di catarsi di cui evidentemente ancora oggi  abbiamo bisogno.

                             Rosamaria Fumarola.

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Giornalista pubblicista, scrittrice, critica jazz, autrice e conduttrice radiofonica, giurisprudente (pentita), appassionata di storia, filosofia, letteratura e sociologia, in attesa di terminare gli studi in archeologia scrivo per diverse testate, malcelando sempre uno smodato amore per tutti i linguaggi ed i segni dell'essere umano