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Oasi Culturale

“Il pane perduto” di Edith Bruck

Bentrovati su “Oasi Culturale” rubrica de ilsudest.it a cura di Alessandro Andrea Argeri e Sara D’Angelo. Questa settimana parleremo del romanzo “Il pane perduto” di Edith Bruck, vincitore del Premio Strega Giovani 2021.
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di Sara D’Angelo

Credit foto: Googleibs

Candidato e finalista del Premio Strega nel 2021, “Il pane perduto” di Edit Bruck sviluppa l’autobiografia di una donna spinta dalla fretta di applicare un timbro al suo vissuto, prima che l’oblio chiuda una dopo l’altra le finestre spalancate in un panorama di guerra.
“Tanto tempo fa c’era una bambina…”
Come una favola, niente in comune con una favola, il tempo dei giochi di una bambina ungherese è stato oggetto del primo conflitto con la realtà.
Edith Bruck nasce in una famiglia ebraica, ultima di sei figli, fin da bambina ha dovuto piegarsi alle restrizioni riservate alla razza nel mirino degli orrori nazisti, crescere in fretta era il solo compito da svolgere a piedi nudi, nella terra che toglie prima ancora di aver dato.
Nel 1944 Edith ha tredici anni, il regime mantiene il motore acceso con i cancelli aperti dei campi di concentramento pronti a dare il benvenuto alla morte di uomini e donne di tutte le età. Edith viene deportata prima ad Auschwitz, poi Dachau e infine Bergen-Belsen dove sarà liberata nel 1945. Della sua numerosa famiglia lei e la sorella saranno le uniche sopravvissute ai lager nazisti. Da quel giorno per Edith comincia un pellegrinaggio esistenziale alla ricerca di uno spazio che sia patria di un respiro lontano dal campo di morte. La ferita morale crea uno spartiacque tra la ragazza sfuggita al sacrificio e il resto del mondo impreparato ad accogliere le piaghe dell’anima. Nel 1948 Edith arriva in Israele, dal 1954 si sposta in Italia dove farà quieto il suo idillio nervoso con la vita.
A Roma incontra il poeta e regista Nelo Risi, non si lasceranno mai più, il loro amore taglierà il traguardo di sessant’anni insieme. La passione per la letteratura sarà l’anello nuziale che giurerà l’amore eterno di due vite. In terra italiana Edith ricomincia a scrivere e questa volta riempirà più di un quadernetto su cui nei campi di sterminio rifugiava il suo terrore.
“Sono nata in un piccolo villaggio ungherese…”
Il pane perduto” si assume tutta la responsabilità di essere memoria dei giorni rinati dopo notti e ancora notti dimentichi della promessa della parola fine. Si leggerà la testimonianza del tempo disumano, assassino, saranno pagine di un prima e di un dopo, di vita sulla morte.
L’infanzia stretta in un villaggio ungherese prepara alla vita assetata di cultura, le mani di Edith sono ancora troppo piccole per rimediare alle assenze dei beni di prima necessità, quindi affida alla scrittura il peso senza voce innamorato delle lettere. Raccontare il “dopo” richiede una forza sovrumana, dal giorno in cui la Gestapo entra in casa l’emozione dimentica la radice di un sorriso per chiudersi tra le sbarre promesse di morte.
C’era ancora vita da scrivere su quel quaderno nero solo a metà, c’erano pagine da inchiostrare con il “dopo” riservato a lei per far sapere al mondo che Edith Bruck non è solo un numero tatuato sul braccio, è vita pulsante ferita da schegge incurabili. Da sopravvissuta è ben consapevole che la vita “dopo” dovrà essere vissuta due volte, chi non ce l’ha fatta ha lasciato un testamento spirituale attraverso cui delega il respiro soppresso a chi quel respiro potrà cospargerlo al mondo. La nuova vita porterà con sé lo strazio dell’ultimo sguardo prima di sparire per sempre, un addio perso nel nulla eppure capace di fissarsi sul quaderno della memoria. Sarà comunque una libertà macchiata del sangue innocente, indelebile, “ad perpetuam rei memoriam”.
Appena 128 pagine si svegliano capolavoro nel sigillo della testimonianza di una donna quasi novantenne a colloquio con Dio. Una lettera è molto più di una domanda abbandonata davanti al cancello del lager. Poi la libertà la ritrova intatta, di più, la supplica ha proliferato i suoi dubbi.
“Se sono sopravvissuta, avrà pure un senso, no?”
Quale Dio ha visto ripetersi duemila anni dopo il suo stesso calvario? Era così impossibile coprire di grazia la Terra soggiogata dal male?
Venir fuori dalle macerie di anni sarà come uscire dal grembo materno una volta in più, non prima di aver stretto un contatto con un nuovo cordone ombelicale su cui far riposare il tremore cresciuto in quel dannato inferno.
Per vivere “dopo” bisognerà andare per porti sicuri lontano dall’impronta umana, chissà se inventarsi una casa dove casa non c’è potrà sibilare il primo accenno di una calda coperta.
Chi considera salvo un sopravvissuto non immagina quanti e quali subdoli travestimenti sono monopolio della morte in piedi.
“Noi non abbiamo né il Purgatorio né il Paradiso, ma l’Inferno l’ho conosciuto, dove il dito di Mengele indicava la sinistra che era il fuoco e la destra l’agonia del lavoro, gli esperimenti e la morte per la fame e il freddo”.
Può sembrare inutile la preghiera decisa a chiedere spiegazioni al sordo o al cieco di un’epoca consegnata alla storia per i suoi deliri assassini, non ci sarà eclissi in grado di coprire le mani sporche di sangue, fiumi di sangue che oltre quei maledetti cancelli hanno cambiato il colore del mare.
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Il pane ancora da infornare giace sulla tavola ungherese di Edith, a consumarlo sarà l’orrore quando sulla porta di casa si presenteranno due gendarmi venuti a rubare l’umanità.

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