Economia & lavoro
Banca Popolare di Bari
di FABRIZIO RESTA
La crisi di tutti, dai correntisti ai lavoratori
Nata nel 1960 e fin dalla sua fondazione guidata da un esponente della famiglia Jacobini, la Banca Popolare di Bari è la più importante banca del mezzogiorno e conseguenzialmente uno dei punti di riferimento dell’economia non solo di bari ma di tutto il Sud. Fino a qualche anno fa la banca è stata protagonista dell’acquisizione di molte banche locali ma anche di alcune specializzate nell’intermediazione mobiliare. Tutto sembra andare bene ma i primi segnali della crisi cominciano già ad evidenziarsi nel 2010, quando in occasione di alcuni controlli, emergono alcune carenze organizzative al punto che la Banca d’Italia vieta alla banca di espandere la propria attività, chiedendole di avviare un piano allo scopo di superare tali lacune, Divieto di fare acquisizioni, poi stranamente rimosso. Il piano viene effettuato, così la Banca d’Italia rimuove il blocco all’espansione, tanto che nel 2014, con l’acquisizione di Banca Caripe e di Banca Tercas, la Banca Popolare di Bari diventa una fra le 10 maggiori banche popolari italiane. In queste operazioni, tuttavia, è intervenuto il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi che ha garantito 330 milioni di euro, facendo scattare le proteste della Commissione Europea per presunti aiuti di stato. L’ultimo aumento di capitale del 2015 vide i soci comprare le azioni a 8,95 euro, con una valorizzazione della banca barese che superava e di molto il patrimonio netto. A parte questo, l’attività sembra procedere spedita sino al 2016, quando in seguito ad altri controlli ispettivi, si registrano delle criticità, specie per ciò che concerne il sistema dei controlli sui crediti. Per questo motivo la Banca Popolare di Bari non può più trasformarsi in società per azioni e questo è un gran problema perché la forma associativa, che è quella cooperativa, insieme alla forma di voto capitario, ossia che ogni azionista ha un voto a prescindere da quante azioni ha, costituiscono un serio problema alla vendita di azioni. Così si procede ad un piano di ristrutturazione aziendale che però non dà i frutti sperati. Allo scopo di rimpinguare il capitale, la Banca Popolare di Bari delibera la riduzione da 9,53 a 7,5 euro del titolo della banca e arriva persino ad accordarsi con il gruppo assicurativo inglese Aviva dove il gruppo bancario si impegnava a collocare i prodotti assicurativi, in cambio dell’acquisto delle azioni per un valore di 280 milioni di euro. Nonostante questo, la Banca Popolare di Bari ha chiuso il 2018 con circa 372 milioni di euro di deficit, un record negativo mai sfiorato prima d’ora e la Banca d’Italia dichiara che il piano non è adeguato. Nel 2019 si avviano altri controlli che rendono ormai chiaro che chi ha guidato il gruppo finora non può più esimersi dalle proprie responsabilità e che non è in grado di attuare le modifiche strutturali per migliorare la situazione. Nel luglio del 2019, l’era del controllo diretto della famiglia Jacopini arriva al termine e la Banca Popolare di Bari viene commissariata.
Come si è visto, dai primi controlli ispettivi del 2010 agli aiuti del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, dall’aumento di capitale ai nuovi controlli, i presagi c’erano già ma coloro che avevano il compito di vigilare hanno preferito mettere la polvere sotto il tappeto in attesa di tempi migliori (da precisare che il compito di vigilanza è rimasta tra le funzioni di Bankitalia, non è passata a quella europea). I tempi migliori non sono arrivati e il bubbone si è ingrandito sempre di più fino ai giorni d’oggi quando è esploso e ora è difficile metterci una pezza. Così come è avvenuto per altre banche in passato, ora c’è un conto da pagare e saranno i contribuenti a pagare. Tuttavia, quello che è peggio (se possibile) è che la crisi della Banca Popolare di Bari manda ulteriormente al tappeto l’economia della Puglia e del Sud, già seriamente provata dalle crisi Ilva e Bosh (ma non solo). Sarà forse per questo motivo che il governo ha deciso non solo di salvare la banca ma di farne una sorta di banca di investimento pubblico per il Sud; un po’ quello che era l’Isveimer, Istituto per lo sviluppo economico dell’Italia meridionale, di proprietà del Banco di Napoli, che fungeva da istituto di finanziamento per le piccole e medie imprese del meridione, liquidato negli anni novanta.
Il fatto è che creare una banca di investimento pubblico non è un’operazione facile. In primo luogo, è bene ricordarlo, sarebbe finanziato dai contribuenti ma anche e soprattutto una soluzione di questo genere significherebbe mettere gli investimenti nelle mani della politica. A parte le varie critiche politiche che ne sorgerebbero, specie da Nord con la Lega suo braccio armato, resta il dubbio legittimo che la politica sappia garantire che il credito, anziché essere dato agli imprenditori meritevoli, non vada a finire nelle mani degli amici degli amici.
In attesa di capire quale sia la soluzione migliore per tutti, chi nel frattempo ci rimette di più sono i lavoratori. Il nuovo piano di riorganizzazione presentato dalla banca, infatti, parla di 500 esuberi in tutto il territorio nazionale e di esternalizzare le lavorazioni. Come sempre, la crisi si risolve tagliando il personale anziché intervenire sulle criticità che hanno creato la situazione. Di questa crisi si scrive spesso degli azionisti, dei correntisti ma pochissimo dei dipendenti, nonostante siano loro che ci mettano la faccia e siano il vero punto di riferimento e a volte anche di sfogo, dei risparmiatori traditi.
“I dipendenti – affermano in una nota i sindacati Fabi, First Cisl, Fisac Cgil, Uilca e Unisin di Bari – sono sempre più di frequente vittime di aggressioni anche fisiche, spesso citati in ingiuste cause, proditori procedimenti penali e, come se non bastasse, destinatari di contestazioni disciplinari. Nessuno se ne preoccupa, anzi, nemmeno si parla di loro, che rischiano di diventare i capri espiatori del difficile momento che la Banca sta attraversando. Noi difenderemo con tutti gli strumenti a nostra disposizione i diritti e i posti di lavoro dei più di tremila dipendenti del gruppo”, concludono i sindacati.
Anche dal punto di vista dei lavoratori, l’idea del governo di creare una banca di investimento pubblico non convince. Ammesso e non concesso che una struttura del genere riesca ad avviarsi e stare sulle proprie gambe, come potrebbe assorbire tutti i dipendenti che rischiano oggi di stare a casa? Quelli in esubero che fine faranno?
Fonte foto: Il Fatto quotidiano