30 Giugno 2025
Il DNA in tribunale: la scienza che smaschera i colpevoli, ma trema davanti al tempo
Dalla certezza scientifica all’incertezza delle tracce degradate: viaggio tra laboratori forensi, nuove tecnologie e dubbi etici

Di Pierdomenico Corte Ruggiero
Era il 13 novembre 1987 quando, durante la trasmissione “Giallo” condotta da Enzo Tortora, gli italiani sentono parlare per la prima volta dell’uso del DNA a scopo forense. Tortora ne aveva suggerito l’uso per risolvere l’omicidio di Lidia Macchi avvenuto nel gennaio del 1987.

Dopo la trasmissione, la stampa si interessa di questo DNA ad uso forense.

Da quel 1987 l’opinione comune è che un’impronta genetica non mente. O quasi. Oggi, grazie alla genetica forense, una singola cellula può essere sufficiente per risolvere un caso. Ma cosa succede quando quella cellula è stata esposta al sole, alla pioggia o al tempo per giorni, mesi, o anni? Il DNA, emblema di precisione scientifica nei processi penali, ha un tallone d’Achille: la degradazione.
Come abbiamo visto è nella fine degli anni Ottanta che la genetica entra nelle aule dei tribunali. I marcatori STR (short tandem repeat), una sorta di codice a barre unico per ciascun individuo, iniziarono a essere usati per identificare con precisione sospetti e vittime. Oggi l’analisi del DNA è uno strumento imprescindibile per la giustizia, ma è efficace solo se il materiale genetico è ben conservato.
Una traccia biologica può parlare anche dopo molto tempo. Ma se il DNA è degradato, il rischio è che parli a bassa voce o, peggio, dica qualcosa di sbagliato, che noi sbagliamo a tradurre.
Il DNA si deteriora facilmente. Radiazioni ultraviolette, calore, umidità, microrganismi e sostanze chimiche possono frammentarlo, modificarne i nucleotidi o interferire con le reazioni di laboratorio. Il risultato? Sequenze incomplete, alleli mancanti e profili che non reggono il confronto in tribunale.
In alcuni casi estremi non è nemmeno possibile capire se un determinato individuo sia presente in un campione. E se il profilo è misto — ad esempio in un’aggressione sessuale — interpretare correttamente le proporzioni tra due o più DNA diventa una sfida.
Negli ultimi anni la scienza ha risposto con una raffica di innovazioni. Tra queste, i cosiddetti miniSTR, marcatori più corti e resistenti alla degradazione, ideali per lavorare su tracce frammentate.
Poi è arrivata la rivoluzione dei sequenziatori massivi (NGS). Queste macchine analizzano simultaneamente migliaia di frammenti genetici, anche molto piccoli, e offrono un quadro dettagliato anche da DNA estremamente compromesso. Le stesse tecnologie sono oggi impiegate per l’identificazione di resti umani vecchi di secoli, o in casi di disastri di massa.
Ma c’è di più. Nuovi marcatori come microhaplotipi e SNP panel permettono oggi di ottenere profili genetici affidabili anche da frammenti di dimensioni esigue, dove un tempo si raccoglievano solo dubbi.
Per interpretare correttamente profili complessi — spesso misti o degradati — si stanno diffondendo software di genotipizzazione probabilistica. Sono algoritmi che calcolano le probabilità che un determinato profilo appartenga a un sospetto, tenendo conto di errori e incertezze.
Le nuove linee guida SWGDAM 2025 Swgdam, pubblicate negli Stati Uniti e già adottate da molti laboratori europei, fissano regole stringenti per l’uso di questi strumenti, richiedendo convalide rigorose, formazione specialistica e trasparenza nel reporting.
Etica e privacy: il confine sottile
L’analisi del DNA non si limita più all’identificazione. I moderni sequenziatori possono fornire informazioni su tratti somatici, origine etnica e persino predisposizioni genetiche a malattie. Un potere immenso, che pone interrogativi delicati.
“In Europa stiamo lavorando su normative più chiare per impedire che il DNA venga usato oltre lo scopo investigativo,” spiega un funzionario del Garante per la Privacy. “Il rischio di sorveglianza genetica o discriminazione esiste e va prevenuto con regole severe.”
Il DNA può essere infallibile, ma i laboratori no. Il metodo conta quanto la tecnologia.
Nel caso del DNA vale ancora di più il principio del ‘garbage in, garbage out’. Se un campione è trattato male o interpretato da personale non formato, il rischio di errori è altissimo. Solo operatori esperti possono leggere correttamente i “picchi”. Esperienza, preparazione ed intuito sono indispensabili.
E’ bene ricordalo visto che si punta all’automazione integrale: macchine che estraggono, amplificano, analizzano e interpretano il DNA senza intervento umano. Noi associamo alle macchine il concetto di “perfetto” ma non esiste la perfezione. Primo perché ogni macchina viene alimentata dai dati forniti dall’uomo. Inoltre solo l’operatore umano può coltivare il dubbio. Cosa che la macchina non sa fare.
La scienza offre continuamente nuovi strumenti forensi. Come la metagenomica forense — lo studio del microbioma delle tracce — che promette di dire non solo chi c’era, ma anche quando e come ha lasciato la traccia. Bisogna, però, ricordare che ogni elemento scientifico da solo non basta per risolvere un caso. Serve una lettura complessiva. L’indagine resta esercizio intellettuale che non può essere affidato solo alle macchine.
Il DNA continua quindi ad essere la regina delle prove scientifiche. Ma come ogni sovrana, ha bisogno di essere ben custodita, interpretata con rigore e, soprattutto, trattata con rispetto. Perché ogni frammento, anche se piccolo o rovinato, può contenere la chiave per la verità. Ma può anche, se gestito male, alimentare un errore giudiziario irreparabile.
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