13 Ottobre 2025
Il marketing dell’ avvenente e “glamour” … sottomissione
Il patriarcato, oggi, profuma di Chanel e parla fluentemente inglese.

Di Maddalena Celano
Il patriarcato, lungi dall’essere superato, ha soltanto cambiato pelle.
Ha imparato a parlare la lingua del mercato, a vestirsi di empowerment, a sorridere nei talk show mentre le bombe “umanitarie” cadono su popoli non allineati.
Oggi si presenta come “femminismo liberale”, ma è in realtà la versione aggiornata e levigata del dominio patriarcale, funzionale al neoliberismo e all’imperialismo atlantico.
Dal patriarcato tradizionale al patriarcato glamour
Nel corso degli ultimi decenni, la cultura occidentale ha saputo trasformare la subordinazione femminile in un prodotto da consumo.
Come osserva Nancy Fraser, ilcapitalismo tardo-moderno ha “assorbito” la critica femminista, neutralizzandone la forza sovversive trasformandola in uno strumento di legittimazione dell’ordine esistente.
Il linguaggio dell’emancipazione è stato svuotato del suo contenuto politico e riempito di slogan commerciali: girl power, self-empowerment, you can have it all.
Il risultato è una nuova figura simbolica: la donna ideale neoliberale, un ibrido di estetica e docilità, di “successo” e conformismo.
Una donna “libera”, certo — ma entro i confini del mercato.
Libera di scegliere il proprio rossetto, non il proprio destino.
La Barbie NATO: Corina Machado e il femminismo compatibile
Il caso emblematico di questa estetica della libertà addomesticata è il recente Premio Nobel per la Pace a María Corina Machado.
Una figura costruita mediaticamente come “donna coraggiosa e democratica”, ma in realtà perfettamente funzionale alla logica del dominio imperiale.
Leader dell’opposizione venezuelana, dichiaratamente neoliberale, filo-USA e filo-israeliana, Machado incarna l’ideale della “donna occidentale emancipata” al servizio del capitale e della geopolitica.
Come un tempo le “olgettine” incarnavano l’estetica del patriarcato mediatico italiano, così Machado incarna quella del patriarcato atlantista.
Una donna disciplinata, impeccabile, patriottica, addestrata alla docilità mediatica.
Il suo volto rassicurante serve a legittimare la violenza economica e simbolica dell’impero.
Non è un caso che la CIA e le ONG finanziate dagli Stati Uniti promuovano figure femminili come simboli di “democrazia” nei Paesi che si rifiutano di piegarsi all’ordine unipolare.
Come scrive Catherine Rottenberg, il femminismo neoliberale è una strategia di governo delle soggettività: trasforma la libertà in auto-sfruttamento, la dignità in immagine, la solidarietà in competizione.
Le altre: le donne non conformi
In questa cornice ideologica, le donne che non si conformano al modello dell’emancipazione capitalistica vengono marginalizzate, invisibilizzate o ridicolizzate.
Sono le intellettuali radicali, le attiviste anti-imperialiste, le lavoratrici che rifiutano la “carriera” a favore della lotta collettiva.
Sono, per dirla con bell hooks, “le donne che resistono all’addomesticamento emotivo imposto dalla cultura patriarcale del consumo”.
Queste donne esistono, creano, scrivono, pensano, lottano — ma non hanno il riconoscimento mediatico che spetta alle Corine Machado del mondo.
I loro successi vengono oscurati, le loro voci zittite o ridotte a “estremismo”.
Perché sono pericolose: mostrano che la vera emancipazione non è compatibile con il profitto né con l’imperialismo.
Come ha scritto Silvia Federici, il capitalismo ha sempre cercato di controllare il corpo delle donne: prima con la religione, poi con la medicina, oggi con l’immaginario.
L’emancipazione che non serve al capitale è immediatamente delegittimata.
Il patriarcato progressista
Il patriarcato odierno non si impone più con la violenza diretta, ma con la seduzione.
Non ti ordina di “nasconderti”: ti invita a dimagrire (o ingrassare) “per la salute”.
Non ti ordina di tacere: ti invita a “parlare meglio” a “essere più diplomatica”.
Non ti obbliga a servire: ti convince che è una tua libera scelta.
E le più pericolose guardiane del sistema non sono gli uomini, ma proprio le donne (anche tra le presunte “progressiste” e “rivoluzionarie”).
È un patriarcato soft, globalizzato, “inclusive”, che ti insegna a desiderare la tua stessa subordinazione.
La nuova schiavitù è glamour, la nuova obbedienza è premiata, e la ribellione — se non monetizzabile — è bollata come isteria.
Il corpo femminile resta campo di battaglia, ma oggi la guerra si combatte con le immagini, le narrazioni, le icone mediatiche.
La libertà non è un filtro Instagram
Il femminismo che si piega al potere diventa marketing.
Il femminismo che lo sfida resta invisibile.
E in questo paradosso si consuma la tragedia culturale del nostro tempo:
le donne più libere vengono cancellate,
mentre le donne più servili vengono premiate — persino con un Nobel.
Il patriarcato, insomma, non è più solo un sistema di dominio maschile.
È una macchina ideologica che produce consenso attraverso la seduzione,
trasformando la ribellione in moda e la sottomissione in “libertà personale”.
Come direbbe Hester Eisenstein, siamo passati “dal femminismo della liberazione al femminismo dell’integrazione”.
E finché la libertà sarà definita da chi detiene il potere, le catene — anche se d’oro — resteranno catene.
Il patriarcato, oggi, profuma di Chanel e parla fluentemente inglese.
Ma resta sempre il patriarcato.
