03 Novembre 2025
Il governatore di Rio de Janeiro umilia il Brasile con il suo massacro di poveri e neri — con la scusa di combattere le fazioni criminali
Finché le favelas saranno trattate come nemiche e la vita dei poveri sarà considerata sacrificabile, il Paese resterà diviso tra il Brasile dei vivi e quello dei condannati.

Di Marlene Madalena Pozzan Foschiera
Il massacro promosso dal governo di Cláudio Castro a Rio de Janeiro non è stata una semplice operazione di polizia: è stata una esecuzione collettiva con rituali di crudeltà — teste decapitate, corpi torturati, persone giustiziate senza processo.
Non è un episodio isolato. Fin dall’inizio del suo mandato, il governatore ha trasformato le favelas in territori di guerra, autorizzando la polizia ad agire senza limiti.
Ma l’azione del 28 ottobre 2025 ha superato ogni confine: Rio si è fermata, avvolta nella paura e nell’indignazione.
Un’intera città è rimasta paralizzata, terrorizzata, davanti al volto nudo e violento dello Stato brasiliano.
Il governo di Castro ha definito l’offensiva “un’operazione di successo”, ma non ha risposto alle domande essenziali:
Le favelas non producono armi né droga
Nelle favelas non si fabbricano armi né si producono droghe.
I grandi trafficanti e i finanziatori non vivono lì — abitano in attici di lusso sul mare, circondati da guardie e da protezione politica.
Ma è nei quartieri poveri e neri che lo Stato scarica tutta la sua violenza.
La polizia di Castro non invade mai le case dei veri capi del crimine; entra invece nei vicoli, nelle baracche, nei cortili dove vive la gente comune.
Questa violenza ha una funzione politica.
Serve come propaganda elettorale dell’estrema destra, che presenta il governatore come un uomo “duro” ed “efficiente”, capace di governare a colpi di fucile per rassicurare una classe media impaurita.
E una parte della società approva: elegge politici che difendono la politica della morte.
La sinistra, invece, si trova di fronte alla difficoltà di proporre una politica pubblica chiara e trasformativa, mentre viene accusata di “difendere i criminali” solo perché rivendica il rispetto della legge.
Culturalmente, il Brasile ha normalizzato la violenza contro i poveri e i neri, e l’estrema destra ha saputo sfruttare questo pregiudizio, vendendo l’idea che la violenza sia sinonimo di ordine, rafforzando così un sistema che protegge i ricchi ed elimina i poveri.
Chiarimento sulle responsabilità e sulle vittime
È importante sottolineare che l’articolo non afferma, come fatto accertato, che strutture statali siano state “infiltrate” da organizzazioni criminali — esistono indizi e accuse che dovranno essere oggetto di indagine.
Ciò che appare evidente è un’altra verità, ugualmente grave: nelle comunità dominate dal traffico, le vittime — quasi sempre giovani neri e poveri — rappresentano l’anello più debole e sacrificabile di una catena che ha finanziatori e complici nei quartieri del privilegio.
L’operazione ha causato anche la morte di quattro agenti di polizia — lavoratori malpagati, senza un addestramento adeguato per azioni complesse e privi di equipaggiamenti di protezione.
Sono vittime di un sistema che li forma per la guerra, non per la protezione. È un’eredità della dittatura militare, che ha insegnato che “il nemico deve essere eliminato”.
I governanti che mantengono questa logica tacciono di fronte al disastro che essi stessi provocano.
Il progetto dell’estrema destra: la paura come arma
Il massacro di Rio fa parte di un progetto politico internazionale, orchestrato dall’estrema destra brasiliana e globale.
Pochi giorni dopo la strage, l’avvocato di Donald Trump, Martin De Luca, ha elogiato pubblicamente Cláudio Castro, accusando il governo Lula di “non essere impegnato nella lotta contro il narcoterrorismo”.
Subito dopo, Flávio Bolsonaro, rientrato dagli Stati Uniti, ha chiesto “aiuto a Trump” per combattere il “terrorismo delle fazioni”, ripetendo la retorica importata dalla politica statunitense.
Lo stesso Castro ha inviato rapporti a Washington, sostenendo la stessa narrativa, e ha trovato sostegno tra deputati, senatori e governatori bolsonaristi, tutti uniti nell’usare per la prima volta in Brasile il linguaggio della “guerra al narcoterrorismo”.
Questa retorica fa parte di un’offensiva internazionale dell’estrema destra, che mira a militarizzare la politica e criminalizzare la povertà.
Non a caso, governi conservatori della regione — come quello di Javier Milei in Argentina, ma anche la Bolivia e l’Ecuador — hanno già adottato la stessa strategia, modificando la propria legislazione per classificare le organizzazioni criminali come terroristiche.
L’obiettivo è chiaro: indebolire i governi progressisti dell’America Latina, logorare Lula nel momento della sua maggiore popolarità e reinstallare la paura come strumento di potere.
Il tutto è avvenuto mentre il presidente brasiliano tornava da un viaggio storico in Indonesia e Malesia, ricco di accordi e riconoscimenti internazionali.
Proprio in quel momento è esploso il massacro, devìando l’attenzione mondiale e cercando di dipingere il Brasile come un Paese nel caos.
Un Paese che ha sempre scelto chi può morire
Il massacro di Rio è solo un altro capitolo della lunga storia di disuguaglianza e violenza strutturale del Brasile.
Un Paese ricco di foreste, acqua, terre rare e petrolio, ma governato da un’élite coloniale e arretrata, incapace di accettare la giustizia sociale.
Il Brasile è nato sul sangue dei popoli indigeni e sulla schiavitù africana.
Quando la schiavitù fu abolita, i padroni ricevettero indennizzi, mentre gli ex schiavi furono abbandonati — senza terra, senza casa, senza lavoro.
Così nacquero le favelas: figlie dell’esclusione e della violenza di Stato.
Per questo ancora oggi si uccidono giovani neri e poveri impunemente, come se il Paese non avesse mai smesso di essere una colonia.
Violazione della Corte Suprema e crimine di responsabilità
Il governatore Cláudio Castro ha violato apertamente la decisione del Supremo Tribunale Federale (STF), nota come ADPF delle Favelas, che impone protocolli rigorosi di comunicazione e tutela della vita durante ogni operazione di polizia.
Infrangendo questa norma, ha commesso un crimine di responsabilità e dovrà risponderne alla giustizia.
Il caso è già stato presentato alla Corte Suprema, e il ministro Alexandre de Moraes ha disposto le prime misure legali.
Dopo aver tentato di accusare il governo federale, Castro è stato smentito pubblicamente dal ministro della Giustizia Ricardo Lewandowski, che ha ricordato come nell’aprile 2025 il presidente Lula avesse già inviato al Congresso il Progetto di Legge sulla Sicurezza Pubblica.
La proposta mira a unificare l’azione delle polizie municipali, statali e federali, sottoponendole al controllo civile e riducendo il potere delle corporazioni militarizzate — per combattere il crimine organizzato con intelligenza, non con sterminio.
L’estrema destra ha reagito con rabbia: non vuole perdere il controllo politico delle forze di polizia, usate come strumento di paura e propaganda elettorale.
Il Brasile davanti allo specchio
Il massacro di Rio non è una guerra al traffico di droga — è una guerra ai poveri.
È il Brasile coloniale travestito da modernità, con la stessa mentalità schiavista.
Mentre il governo federale tenta di ricostruire la democrazia, i governatori dell’estrema destra approfondiscono l’autoritarismo, usando il sangue degli innocenti come messaggio politico.
Il mondo deve sapere che in Brasile non esiste la pena di morte, ma lo Stato continua a giustiziare sommariamente i suoi cittadini più vulnerabili.
Finché le favelas saranno trattate come nemiche e la vita dei poveri sarà considerata sacrificabile, il Paese resterà diviso tra il Brasile dei vivi e quello dei condannati.
Epilogo
Il massacro del 28 ottobre 2025 è uno specchio che riflette la storia di esclusione e silenzio del Brasile.
Ma è anche un avvertimento al mondo: la democrazia brasiliana è sotto attacco, non solo con le armi, ma anche con le parole — con la retorica che trasforma la barbarie in politica di Stato.
E, come ogni storia di oppressione, cambierà solo quando il popolo povero e nero, da secoli bersaglio di tante guerre, sarà finalmente riconosciuto come protagonista della propria storia. 28 ottobre 2025 — il giorno in cui lo Stato ha ucciso ancora, in nome dell’ordine

