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02 Novembre 2025

L’esilio del femminile: la ritirata delle donne dal lavoro e il nuovo volto della sudditanza

le donne stanno abbandonando in massa il mercato del lavoro.

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Di Maddalena Celano

Negli Stati Uniti — laboratorio di tutte le tendenze che presto o tardi raggiungono l’Europa — sta avvenendo qualcosa di profondamente inquietante: le donne stanno abbandonando in massa il mercato del lavoro.

Le statistiche parlano chiaro: milioni di lavoratrici stanno lasciando le proprie occupazioni, molte senza la prospettiva di un rientro.

Quello che i media interpretano come un “cambio di priorità” o un “ritorno alla famiglia” è, in realtà, il segnale di una regressione economica, sociale e culturale senza precedenti.

Dietro le formule apparentemente neutre della cronaca economica, si nasconde una restaurazione patriarcale.

Perché quando una donna esce dal mercato del lavoro, non perde soltanto un salario: perde potere.

Potere contrattuale, politico, decisionale, sociale.

Perde la possibilità di negoziare, di autodeterminarsi, di sottrarsi a rapporti abusivi o diseguali.

Ogni licenziamento, ogni “dimissione volontaria”, ogni rinuncia forzata è, in realtà, una sottrazione di libertà.

In un sistema come quello statunitense, dove l’assicurazione sanitaria è legata al lavoro, perdere l’impiego significa perdere anche il diritto alla cura, alla salute, alla dignità.

Significa ritornare a dipendere economicamente da un coniuge, da una famiglia o — più spesso — da nessuno.

Significa essere intrappolate in una solitudine economica e sociale che è, a tutti gli effetti, una forma moderna di esclusione.

E tuttavia, i commentatori maschili — quelli che leggono questi dati come “segnali di rinascita dei valori tradizionali” — continuano a interpretare il fenomeno in modo narcisistico e autoreferenziale, incapaci di vedere la ferita collettiva che esso rappresenta.

Si congratulano con sé stessi per un ritorno dell’“ordine naturale”, mentre in realtà si tratta di un ordine di subordinazione.

C’è poi un altro dato, altrettanto eloquente: la bassa natalità e la riduzione drastica dei matrimoni.

Negli Stati Uniti, come in Europa, solo le donne benestanti oggi si sposano e fanno figli.

Le donne povere, invece, rifiutano il matrimonio e la maternità, non per disprezzo della famiglia, ma per una lucidissima consapevolezza: sposarsi e avere figli, senza risorse, significa rinunciare al lavoro e, con esso, a ogni possibilità di indipendenza.

Significa diventare “manodopera gratuita” e “utero a disposizione” — una condizione che troppe donne hanno imparato a riconoscere e a temere.

Laddove le ricche comprano libertà attraverso il denaro, le povere difendono la propria sopravvivenza attraverso la rinuncia.

È questa la contraddizione più feroce del capitalismo patriarcale: la libertà formale delle donne coesiste con l’impossibilità materiale di esercitarla.

Il risultato di questo processo è un regresso generalizzato della condizione femminile.

Si torna, lentamente ma inesorabilmente, alla figura della donna ancillare: quella che “aiuta” ma non decide, che “ama” ma non sceglie, che “accudisce” ma non partecipa.

Un modello di femminilità apparentemente dolce, ma in realtà profondamente mortifero, che toglie alle donne la centralità sociale conquistata in decenni di lotte.

E con la perdita dell’autonomia economica, arriva la perdita della difesa contro la violenza: meno reddito significa meno libertà di lasciare un partner abusivo, meno capacità di denunciare, meno possibilità di ricominciare.

Così, la società torna a vedere le donne come un gruppo servile, parassitario, subordinato.

Non si tratta solo di un problema di genere, ma di una questione di civiltà.

Una società che rinuncia al lavoro femminile rinuncia al suo stesso principio vitale: quello della cooperazione, della cura condivisa, della creatività sociale.

È una società che si svuota del femminile — della sua intelligenza empatica, della sua forza generativa, della sua dimensione relazionale.

Questo arretramento non è casuale. È parte di un contrattacco maschile e sistemico.

Dopo decenni di conquiste, il patriarcato ferito reagisce.

L’eguaglianza, per molti uomini, è vissuta come una ferita narcisistica, un’umiliazione, una perdita di potere.

E come ogni sistema ferito, reagisce con violenza, con manipolazione, con restaurazione.

La ritirata delle donne dal lavoro è la nuova forma di questa restaurazione: meno autonomia, meno reddito, meno voce.

È il terreno su cui fiorisce la nuova destra, quella che predica la “famiglia tradizionale” mentre smantella i diritti sociali, che parla di “valori morali” mentre normalizza la dipendenza e la sottomissione.

Quello a cui assistiamo è un esilio del femminile.

Un esilio materiale, simbolico e spirituale.

Le donne si ritirano, sì, ma non per resa: si ritirano come atto di resistenza passiva, perché sanno che questo sistema non le vuole davvero libere, ma solo funzionali.

È un lutto collettivo, ma anche un segnale di allarme.

Perché se non comprendiamo adesso la portata di questo fenomeno, ci sveglieremo presto in un mondo dove la libertà femminile sarà solo un ricordo — e con essa, ogni residuo di democrazia reale.

La libertà, oggi, passa ancora una volta dal corpo e dal lavoro delle donne.

E senza quella libertà, nessuna civiltà potrà dirsi davvero umana.