Sanità
Coronavirus e la sindrome di Stoccolma
di PIERDOMENICO CORTE RUGGIERO
“Un particolare stato di dipendenza psicologica e/o affettiva che si manifesta in alcuni casi in vittime di episodi di violenza fisica, verbale o psicologica “.
Questa è la cosiddetta sindrome di Stoccolma. Una sindrome non riconosciuta a livello scientifico ma che ha origine nei fatti accaduti a Stoccolma, il 23 agosto 1973. Praticamente si crea una contrapposizione tra il NOI qui dentro e il LORO che stanno fuori. Uno stato di prigionia che viene percepito come più sicuro dell’uscire fuori. Spesso la sindrome di Stoccolma, nasce anche da una scarsa fiducia nelle autorità. L’essere ostaggi, sembra più sicuro che venire liberati. Questa è una sindrome, che potrà e può presentarsi anche ora, con l’emergenza del Coronavirus. Siamo costretti in casa, per ragioni sanitarie. I nostri spostamenti sono molto limitati. Una situazione totalmente innaturale, che naturalmente deve essere accettata. Ma sta succedendo qualcosa di preoccupante. Inizia a crearsi la divisione tra NOI qui dentro e LORO che stanno fuori. Ad alimentarla la paura di contagio e la convinzione che più gente cammina per strada, più tardi usciremo di casa. In realtà il rischio è che molte persone non vorranno più uscire. Non si fideranno delle indicazioni delle autorità. I genitori non manderanno i figli a scuola, altri non riusciranno più a fare una passeggiata. Tanti vorranno aspettare il vaccino. La reclusione, sarà più sicura della libertà. Attenzione, è normale che le nostre abitudini devono cambiare. Tante saranno le precauzioni da prendere per molti mesi. Essere liberi con le dovute cautele è normale, voler ricorrere alla reclusione domiciliare per paura, è invece diverso. Accettare e anzi sentire rassicurante la perdita della libertà per un tempo indefinito, non è normale. Appena finito il Secondo Conflitto Mondiale, l’Italia era un paese totalmente distrutto. In pessime condizioni economiche e sanitarie. Bastava una semplice infezione per morire, inoltre la malaria colpiva forte. La possibilità di cure efficaci, era praticamente nulla. A questo quadro disastroso si aggiunge, che l’Italia era ricoperta di campi minati. In campagna, in città, sulle spiagge, migliaia di mine ed ordigni inesplosi. Uscire di casa, andare a lavoro nei campi, rimuovere le macerie, poteva voler dire saltare su una mina. E non si poteva aspettare lo sminamento di tutto il Paese, troppo tempo. E allora si è iniziato a convivere con il pericolo. Alle persone veniva spiegato il pericolo e si cercava di prendere precauzioni. L’istinto di sopravvivenza che convive con la necessità di proseguire la vita quotidiana personale e del Paese, questa è stata la via nel 1945. Ma la verità è che loro non avevano nulla da perdere. Non confortevoli case dove nascondersi, niente stato sociale e nessuna certezza. Noi rischiamo di rimanere prigionieri delle nostre sicurezze e delle nostre certezze. Sempre meno certe e sempre meno sicure. Fuori c’è la vita, pericolosa e dura sicuramente, ma l’istinto deve essere quello di tornare alla vita. Abbiamo mezzi e risorse scientifiche, per convivere prima e sconfiggere poi il virus. Perché alla fine ci sarà chiesto di scegliere. O persone libere, coraggiose e coscienziose o ostaggi di noi stessi. Perché il Coronavirus è solo l’inizio, nulla sarà come prima. E come sarà, dobbiamo deciderlo noi.
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