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Chi è vecchio?

Si va avanti inconsapevoli del fatto che tutto ciò che stiamo vivendo diventi inesorabilmente memoria, fino a quando ci prende la nostalgia per un tempo lontano, che crediamo non possa più tornare ad essere il nostro.

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Di Rosamaria Fumarola

Alla giovinezza non si pensa mai durante la giovinezza. Da  giovani la nostra mente è occupata da altro e suppone che quella condizione sia la sola che ci sia data da vivere. Si va dunque avanti inconsapevoli del fatto che tutto ciò che stiamo vivendo diventi inesorabilmente memoria, fino a quando ci prende la nostalgia per un tempo lontano, che crediamo non possa più tornare ad essere il nostro. In generale quella nostalgia ci prende a causa di un ricordo che riaffiora o per una sensazione che riconosciamo aver già provato: ci torna alla mente ciò che provavamo passeggiando in quella via con quell’amica e magari non sempre si tratta di sensazioni che tanti anni fa ci piaceva provare, ma ci domandiamo se le proveremo ancora, se non siano destinate ad essere seppellite senza possibilità di salvezza. Ci diciamo che i tempi, le condizioni sono cambiati e che lo siamo anche noi, anche se per la verità noi non cambiamo  mai e dunque non ci sarebbe ragione per rattristarsi ritenendo di aver perduto qualcosa e che il nostro tempo sia passato una volta per tutte.

Il tempo infatti, a ben guardare, non esiste: esiste ciò che si sente e fintanto che lo si sente si è vivi e nulla si è perso. 

Chi può dire il contrario? La società? Il nostro corpo? E chi ci dice che siano loro a dire il vero e non ciò che sentiamo? Certo, la politica, la letteratura, l’umanità tutta ci ricordano che esiste una giovinezza e che quando è passata l’assenza di amore o  la malattia rendono la vita meno degna di essere vissuta. Esiste tuttavia una parte dei tempi che regolano le nostre esistenze che le comunità hanno gestito e questo per la loro organizzazione ai fini produttivi. 

Nella Sparta arcaica ad esempio, esistevano celebrazioni pubbliche durante le quali avvenivano  i riti di passaggio dei fanciulli all’età adulta, che ci testimoniano un’ingerenza forte del pubblico nel privato che oggi avvertiamo di meno, che forse anzi non avvertiamo affatto, essendosi nel tempo molto ampliato il tempo nel quale l’individuo è lasciato libero di gestirsi e stabilire le proprie prerogative. Quest’individualismo è figlio del consumismo (che va a braccetto col capitale) che non può essere ragionevolmente considerato il creatore del migliore dei mondi possibili, ma che tuttavia lascia all’essere umano un ampio margine di riflessione e gestione del proprio io, sia pure entro l’obbligata cornice del desiderare, acquistare, consumare ciò che il capitale ci mette a disposizione. Non è perciò più importante ciò un tempo era necessario al potere per controllare le nostre vite: la famiglia per mettere al mondo figli che dovevano servire per il lavoro nei campi o nelle industrie e la rigida distinzione nell’età della vita tra infanzia ed età adulta e tra età adulta e vecchiaia come momenti che definivano una fase produttiva per la società da una che non lo era più. 

Tutto questo ci appare oggi meno rigido, meno cogente di quanto non lo fosse un tempo ed in parte ad ognuno di noi è data la possibilità di conoscere e seguire fino in fondo ciò che è ed a questo proposito Marcuse ci ha insegnato che siamo tutti conservatori e che tutti ci sentiamo rassicurati dalle abitudini (se così non fosse i riti religiosi e non solo non avrebbero avuto nella storia dell’uomo la fortuna e longevità che hanno avuto). Tutti siamo felici se il passato si fa ancora presente, salvo poi comprendere che ciò che davvero ci fa stare meglio è la certezza che certe cose non cambino, che noi non cambiamo e che almeno su questo si possa contare. 

Forse, se oggi ci fosse chiesto di definire la vecchiaia sarebbe più onesto dire che è quell’età nella quale avvertiamo la sensazione che il vissuto finisca col mescolarsi e prevalere sulla verità delle cose, ammesso che ve ne sia stata una e che a qualcuno ancora possa importare. Col tempo cioè, ci pare che sia vero ciò che a noi è sembrato tale ed anche in questo caso è naturalmente assicurata proprio la conservazione dell’io che tanto temevamo con gli anni andar perduto. 

Molti penseranno che nell’immaginario collettivo un vecchio è sempre un vecchio, non più fisicamente desiderabile, non più nel pieno di quelle facoltà necessarie all’esercizio di un’attività lavorativa e la società non perde occasione per ricordarcelo, attraverso gli sfotto`, la mancanza di rispetto o, nei casi peggiori, la violenza contro le persone anziane. 

È ovviamente da me lontano tessere le lodi del fastidioso giovanilismo che tanti esibiscono, benché ognuno sia per fortuna libero di scegliere per sé ciò che ritiene giusto. Tale atteggiamento è centrato soprattutto sul mantenere il corpo giovane, che è in sé un’operazione virtuosa, a patto che non si dimentichi che è ridicolo tentare di ottenere da esso ciò che ottenevamo a venti o trent’anni, perché ragionevolmente rischia di apparire una sorta di stupido “accanimento terapeutico”, una battaglia che impegna inutilmente le nostre energie, essendo già persa in partenza. 

Una battaglia che è invece doveroso combattere è quella di provare a scardinare lo stigma che ci vede ad un certo punto irrimediabilmente corrosi nell’animo dalla vecchiaia: ciò che siamo dentro è destinato a rimanere sempre uguale e finché saremo vivi nessuno potrà portarcelo via. Non avremo guadagnato la certezza di una vita eterna, ma infondo chi ambisce a tanto? 

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Scrittrice, critica jazz, giurisprudente (pentita), appassionata di storia, filosofia, letteratura e sociologia, in attesa di terminare gli studi in archeologia scrivo per diverse testate, malcelando sempre uno smodato amore per tutti i linguaggi ed i segni dell'essere umano