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Società

Nessuno è più solo di una donna che chiede aiuto

Si crede a torto che quella consuetudine che la portava a tacere di uno stupro subito sia lontana. Ma vi sono altre, molte altre vicende rispetto alle quali si chiede ancora alle donne di tacere e questo perché una donna deve giustificare tutto ciò che la riguarda, perché l’onere della prova ricade ancora e sempre su di lei, per quanto di tragico le accade e per le cose belle che le possono capitare.

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Supponiamo dunque che la donna in questione decida di procedere con una denuncia formale nei confronti del suo persecutore. L’atto non verrà notificato al de cuius al momento in cui la denuncia sarà sporta, ma solo al termine delle indagini, quando cioè dovrà comparire in giudizio in qualità di indagato di fronte ad un magistrato e questo accadrà mediamente in un arco di tempo che andrà dai sei mesi ad un anno, periodo durante il quale le violenze domestiche continueranno senza incontrare argine alcuno.  A ciò va aggiunto che chi denuncia non è mai abbandonato dal terrore che il suo aguzzino gli incute: in qualunque momento della sua giornata la qualità della sua esistenza subisce infatti un depauperamento da ogni punto di vista, che finisce col creare una sorta di giustificazione alle aggressioni del persecutore e che soprattutto le sottrae la sola cosa che non dovrebbe mai farsi portare via e cioè la capacità di giudizio, di discernere che il male non può trovare giustificazione, né mai essere confuso con il bene. È forse questo che in molti casi impedisce la risoluzione di tali situazioni ed è questa la sottrazione più intollerabile che si possa subire e per la quale al responsabile dovrebbe essere sempre comminata la pena peggiore. Il furto della capacità di discernere equivale infatti all’alienazione di un’anima e all’abdicazione a qualunque forma di felicità. 

Chi subisce vive la sensazione costante di una paralisi, una gabbia da cui deve avere il coraggio di liberarsi, recuperando la propria autonomia umana, morale ed intellettuale. Peraltro un violento abituato a dissimulare, a maggior ragione lo farà di fronte ad un giudice, lanciando accuse infamanti nei confronti di chi ha dovuto raccogliere gli ultimi brandelli della sua esistenza, per affrontare un processo. 

Chi è abituato a dissimulare crea il vuoto attorno alla sua vittima, che non lo paralizza, né lo spaventa e che già quotidianamente può trovarsi in contesti nei quali è considerata colpevole e perciò nessuno si assumerà la responsabilità della sua tutela. 

Come farà una donna già tanto provata a trovare gli argomenti per difendersi in giudizio, per provare che le accuse che il suo persecutore le muoverà sono solo infami menzogne? Come farà se ben prima non le hanno creduto i parenti ed i vicini, se la  polizia si è mille volte mostrata titubante di fronte ad un atto formale di accusa verso un familiare, scoraggiandola apertamente dall’adire le vie legali? Come, se gli assistenti sociali le hanno chiesto di andare prima a denunciare, se cioè tutti e soprattutto chi avrebbe dovuto sostenerla, non hanno fatto che scaricarsi l’un l’altro il problema, di fatto non assumendosi quella responsabilità che la legge dello stato per cui lavorano impone loro di assumersi? 

In affari del genere, lontano dal clamore delle violenze di cui ci danno notizie i mass media, esiste e prevale una strana, rivoltante cultura del laissez faire, del non impicciarsi, del farsi i fatti propri e questo è un fenomeno trasversale nella cosiddetta società civile, che si sbraccia però in accuse aperte solo a tragedie avvenute di cui tv, internet e giornali diano notizia. La verità è che non c’è nessuno che nel nostro paese sia deriso, sfruttato, umiliato e ridotto al rango di cosa più delle donne. Nessuno in Italia è più solo di una donna che chiede aiuto. Si crede a torto che quella consuetudine che la portava a tacere di uno stupro subito sia lontana, ma le cose non stanno così. Vi sono altre, molte altre vicende e circostanze rispetto alle quali si chiede ancora alle donne di tacere e questo perché una donna deve giustificare tutto ciò che la riguarda per tutta la sua vita, perché l’onere della prova ricade ancora e sempre su di lei, per quanto di tragico le accade e per le cose belle che le possono capitare. Di tutto una donna è sempre colpevole e fino a quando non sarà alleggerita dal fornire la prova di ciò che subisce, né ne sarà ritenuta responsabile, non esisterà un numero sufficiente di leggi in grado di difenderla da una società nella sostanza e più che mai ancora misogina e sessista.

Rosamaria Fumarola 

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Scrittrice, critica jazz, giurisprudente (pentita), appassionata di storia, filosofia, letteratura e sociologia, in attesa di terminare gli studi in archeologia scrivo per diverse testate, malcelando sempre uno smodato amore per tutti i linguaggi ed i segni dell'essere umano