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Quali aziende sono rimaste in Russia?

Nonostante i proclami dei governi, a seguito delle pesanti sanzioni economiche imposte dall’Occidente, non tutte le multinazionali sono scappate dalla Russia. Alla base della scelta di queste aziende ci sarebbero motivi etici, economici, legali. Vediamo quali sono.

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Nella foto di copertina, banconote russe. Immagine presa da Wikimedia Commons, pertanto di dominio pubblico.

di Alessandro Andrea Argeri

Dall’energia, ai trasporti, al settore alimentare. L’invasione dell’Ucraina ha comportato una crisi economica impossibile da gestire per entrambi gli schieramenti coinvolti nel conflitto. Attualmente, restare sul mercato russo nel lungo periodo comporterebbe il suicidio economico per qualsiasi azionista. Dunque si procede con le cessazioni delle collaborazioni internazionali, la chiusura dei nuovi progetti, il rimpatrio del dipendenti. Tuttavia non tutte le multinazionali occidentali hanno deciso di “mettersi in sicurezza”, poiché fortemente dipendenti dal mercato russo.

Nella foto, banconota da ventri rubli. Immagine presa da Wikimedia Commons, pertanto di dominio pubblico.

Le prime compagnie ad inaugurare l’esodo dal mercato russo sono state British Petroleum, colosso petrolifero britannico, Equinor, società energetica norvegese, Shell, multinazionale operante nel settore degli idrocarburi, dell’energia, della petrolchimica, anch’essa britannica. Sono seguite, poi, in ordine: Ikea, Volkswagen, Lego, Netflix, Toyota, Apple, Bp, Maersk, Volvo, Netflix, Visa, Mastercard, American Express, alle quali si sono aggiunte ancora tante altre aziende occidentali, per una lista in continuo aggiornamento.

A causare la diaspora delle multinazionali è stata ovviamente la “non provocata invasione dell’Ucraina e gli inaccettabili eventi a cui abbiamo assistito”, come ha dichiarato Visa, mentre Mastercard già nella prima settimana di guerra aveva pubblicato un comunicato, nel quale veniva riportato: “Non prendiamo questa decisione alla leggera. Mastercard opera in Russia da oltre 25 anni. Abbiamo quasi 200 colleghi che rendono questa azienda così fondamentale per molti stakeholder. Per più di una settimana, il mondo ha assistito agli eventi scioccanti e devastanti risultanti dall’invasione russa dell’Ucraina. I nostri colleghi, i nostri clienti e i nostri partner sono stati colpiti in modi che la maggior parte di noi non poteva immaginare. Questi sono stati e continueranno a essere giorni molto difficili, soprattutto per i nostri dipendenti e le loro famiglie in Ucraina; per i nostri colleghi con parenti e amici della regione; per i nostri colleghi in Russia; e per il resto di noi che stiamo guardando da lontano. Mentre facciamo questo passo, ci uniamo a tanti altri nella speranza e nell’impegno per un futuro più positivo, produttivo e pacifico per tutti noi”.

Tuttavia le due leader nei servizi di pagamento hanno subito precisato come le sanzioni annunciate “non influenzeranno gli utenti delle carte che sono state emesse in Russia”. La Russia però è comunque corsa subito ai ripari. Sberbank infatti, la principale banca russa, ha dichiarato nei giorni scorsi: Sberbank sta lavorando sulla possibilità di emettere carte con Mir-UnionPay. Stiamo già lavorando all’emissione di carte UnionPay, il sistema di pagamento nazionale della Cina. Con questa carta, possiamo effettuare pagamenti in 180 paesi del mondo”. Inoltre, secondo quanto riportato dalla stampa russa, Rosbank, Tinkoff-Bank, Raiffeisen e MKB sarebbero al lavoro sullo stesso progetto.

Il settore bancario russo dunque cigola, ma non cede. Le aziende preferiscono scappare, eppure non tutte sono dello stesso parere. Secondo un elenco tenuto in costante aggiornamento da Jeffrey Sonnenfeld, professore associato della Yale School of Management, quasi 30 multinazionali sono ancora in Russia. Alcune hanno deciso di ridurre le attività, mentre altre lavorano a pieno regime. Abbiamo dunque: Reebok, Halliburton, Koch Industries, LG Electronics e Subway di Authentic Brands, quest’ultimo con circa 450 sedi in franchising in tutta la Federazione. Le aziende sono state categorizzate in quattro categorie, a seconda degli approcci differenti: ritiro di tutte le attività, sospensione delle operazioni, riduzione delle attività, collaborazione economica, queste ultime collaborerebbero a pieno regime con il governo russo.

Se McDonald è stato tra i primi marchi a lasciare il Paese governato da Vladimir Putin, la sua nemesi, i principale competitore, Burgher King, continua a sfornare panini nei suoi oltre 800 stabilimenti. Pfizer, la nota azienda farmaceutica americana, ha sospeso i nuovi investimenti, ma ha mantenuto i vecchi stabilimenti perché “ci sono farmaci essenziali, prioritari necessari alla vita, che non possono essere sospesi”. All’incirca la stessa dichiarazione è arrivata dalla Nestlé: <<Manteniamo i beni primari>>, ovvero quelli legati al latte. Sono state eliminate invece le capsule del caffè. In pratica, tra un'”operazione speciale”, una “denazificazione”, l’eliminazione di qualche “irrispettoso oppositore”, i russi potranno tranquillamente concedersi una “pausa Nesquik”.

La Renau sino alla scorsa settimana era ancora in Russia, poi Macron ha deciso di “spostare la produzione, delocalizzarla, ricalibrarla altrove”. Continuano invece ad essere attive tre grandi francesi: Auchan, LeroyMerlin, Danone. Auchan fattura circa il 10% dei ricavi globali in Russia, dove ha circa trentamila dipendenti. Stessi numeri per la Danone. Invece Leroy Merlin ha opposto una resistenza nettamente più esplicita, poiché non si è detta disposta a “cambiare politica di mercato”, pertanto non solo tutt’ora sono aperti i suoi 112 punti vendita, ma ha anche annunciato di aver aumentato le forniture dopo l’uscita dal mercato russo di altre aziende concorrenti. Insomma, noi occidentali potremo pure non sapere da chi comprare il gas, però i russi sapranno certamente da chi acquistare l’oggettistica per la casa!

C’è poi la Koch Industries, colosso globale nella produzione del vetro, di proprietà di uno degli uomini più ricchi del mondo, Charles Koch. A tal proposito, il presidente dell’associazione ha dichiarato: “Sebbene l’attività in Russia sia una parte molto piccola di Koch, non ci allontaneremo dai nostri dipendenti o consegneremo questi impianti di produzione al governo russo in modo che possa operare e trarne vantaggio. Farlo metterebbe solo i nostri dipendenti maggiormente a rischio e farebbe più male che bene”. Anche fornitori di servizi petroliferi come Halliburton e Schlumberger rimangono collaboratori economici nonostante le sanzioni statunitensi.

Ma siccome a noi italiani non deve mai mancare nulla, tra le società rimaste in Russia figurano anche importanti imprese italiane. Tra queste risalta la Pirelli, la quale ha ridotto le attività, sebbene non abbia ancora abbandonato la Federazione, dove produce il 10% dei propri prodotti.

Per quanto riguarda le banche, dallo scorso anno Citigroup tenta di cessare l’attività in Russia, tuttavia ad impedirglielo sembrano essere le “azioni legali”, ovvero l’opposizione diretta del gruppo russo, per un totale di 9,8 milioni di crediti. Anche l’Unicredit è molto esposta sul mercato, con importanti crediti nei confronti dei clienti russi per un totale di otto miliardi di euro. La principale banca italiana, infine, l’Intesa Sanpaolo, è esposta per cinque miliardi di euro, con 780 dipendenti. Dunque la scelta di rimanere per continuare a collaborare è “necessaria”, per non definirla “obbligata”, poiché le conseguenze per i nostri istituti di credito sarebbero molto dannose. Il problema per le banche è quello di dover vendere i propri asset, ma chi in Russia comprerebbe asset bancari durante una guerra? Il rischio è che questi ultimi vengano nazionalizzati dal regime. Del resto, lo stesso presidente russo ha fin da subito espresso il suo parere. <<Le società estere che stanno abbandonando la Russia…>> ha detto lo Zar <<Dovrebbero essere date a coloro che le vogliono far funzionare>>.

Per altre aziende invece la permanenza nel mercato russo avrebbe alla base “motivi etici”. Il capo della divisione finanziaria della multinazionale Johnson & Johnson, Joseph Wolk, martedì ha detto: “Se i nostri prodotti smettono di arrivare ai pazienti in Russia che ne hanno bisogno, moriranno o subiranno gravi conseguenze”. La politica è quella di continuare a distribuire farmaci essenziali, come quelli antitumorali.

Secondo alcune voci, in primis le stesse dichiarazioni russe, la guerra finirà il 9 maggio, data simbolo della liberazione dal nazismo. Resta da capire come si riallacceranno i rapporti economici, anche se non ci sarà nessuna pace, ma solo una tregua tra due guerre.

Qui di seguito un elenco completo delle 27 società ancora in Russia al momento della pubblicazione di questo articolo.

Accor, Air Products, Asus, Auchan, Authentic Brands Group – Reebok, Baker Hughes, BBDO Group, Cargill, Cloudflare, DDB, Decathlon, Greif, Gruma, Halliburton, International Paper, IPG Photonics, Koch Industries, Leroy Merlin, LG Electronics, Metro, Nalco, Natura and Company, Omnicom Media Group, Oriflame Cosmetics, Pirelli, Schlumberger, Subway, Young Living, Activision Blizzard, Airbnb, Alaska Airlines, Aldi, American Airlines, Bumble, Deloitte, Delta Air Lines, Exxon, FIFA, Formula One, Nasdaq, Netflix, Radio Free Europe, Swarovski, TJ Maxx, TripAdvisor, Uber, United Airlines.

Qui invece, un secondo elenco con le società dichiaratesi disposte a tornare in Russia.

Adidas, Adobe, ADP, Amazon, American Express, Bank of China, Bridgeston Tire, Cisco, Citrix, Clorox, Deutsche Bank, DHL, Discover, Disney, FedEx, Ford, GM, Harley-Davidson, Honda, HP, IBM, Intel, Lego, Mastercard, Mercedes-Benz, Meta, Microsoft, Nintendo, Nissan, Oracle, Paypal, Prada, Rolls Royce, Starbucks, TikTok, Toyota, Twitter, Under Armour, UPS, YouTube

Fonte: https://som.yale.edu/story/2022/500-companies-have-withdrawn-russia-some-remain

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Giornalista regolarmente tesserato all'Albo dei Giornalisti di Puglia, Elenco Pubblicisti, tessera n. 183934. Pongo domande. No, non sono un filosofo (e nemmeno radical chic).