Cultura
“Non esiste altra libertà se non quella di parola”
di MARIO GIANFRATE
Credo di aver sentito per la prima volta la massima “carmina non dant panem” quando frequentavo la prima media.
La professoressa di italiano e storia decise di utilizzare la piccola raccolta di proverbi latini presenti sul libro di grammatica; noi ogni settimana dovevamo impararne qualcuno e tra questi capitò un giorno appunto quello citato. Come tutti lo imparai, dandone per scontato il senso, ma con qualche inconfessata riserva. Non ero infatti convinta che le cose stessero proprio così come diceva il motto. Certo, con la poesia e con le parole in genere non potevo comprarci le focaccine (e questo molto mi spiaceva), ma non poteva essere possibile che le parole fossero così inutili, anche se sperimentavo continuamente che la sola libertà ritenuta degna di questo nome era quella di comprare tutto ciò che si potesse desiderare. Sono certa che la maggior parte di noi anche oggi prova la stessa mia sensazione di allora. Persino i ribelli quasi sempre si battono contro un sistema che li esclude, del quale ambirebbero però a fare parte ed in questo caso se parliamo di sistema il solo riferimento possibile è quello al capitalismo, che come unica legge cogente riconosce quella imposta dal danaro. Non è nelle mie intenzioni disconoscere il potere che i soldi garantiscono, anzi sono convinta che in una società organizzata come la nostra una loro importante mancanza pregiudichi lo sviluppo equilibrato di persone ed intere famiglie, sebbene tutto sia sempre possibile e non sia cosa rara sentire di questo o quel tale che da eremita riesca a vivere con il necessario e nulla più. Non è cosa rara… ma credo sia doveroso sottolineare che un conto è porre in essere una simile scelta ritirandosi in un eremo lontano dal mondo, un conto è farlo rimanendo nella società senza essere posto ai margini come folli o quantomeno come diversi. Non è questa faccenda di second’ordine, dal momento che esiste una legge di natura che fa di noi degli animali che non desiderano essere esclusi dai contesti sociali di riferimento e che, quando ciò accade pagano un prezzo alto in termini di vulnus, alla qualità della propria vita.
Insomma, ci viene banalmente insegnato che le parole possono ferire, ma molto più di rado che in esse risiede una funzione creatrice del mondo che ci circonda che va ben aldilà di quanto in superficie ci appaia. Le cose infatti esistono perché hanno un nome e senza la pronuncia di esso non hanno vita alcuna. La parola è partecipazione alla vita se proferita e se udita, consentendo la creazione delle identità grazie a cui le relazioni ed il mondo intero esistono. La funzione sostanziale e solo in apparenza marginale rivela in ciò la sua esistenza, giacché se non posso chiamare una cosa col suo nome, tale cosa non esisterà né per me né per sé, perché fuori non esiste ciò che non esiste dentro.
La cosiddetta libertà di espressione, intesa come riconoscimento della libertà di rivendicare da cittadini i nostri diritti è quindi una componente sì importante, ma solo una tra le tante che dovremmo imparare a riconoscere alle parole. Da agnostica non so se, come dice l’espressione biblica, “in principio fu il Verbo”, ma se così fosse non me ne meraviglierei e comunque ho la certezza che è esistito un tempo nel quale il segno scritto, la parola e la cosa, coincidevano specularmente.
Si pensi ad esempio, in riferimento alla coincidenza tra segno e cosa, alla lettera A, che non è altro che il pittogramma rovesciato usato in antico per indicare il toro o il bue. Originariamente veniva rappresentato l’intero animale, ma con il tempo solo un segno con le corna.
Le lettere del nostro alfabeto sono dunque le iniziali delle figure rappresentate in origine. La lettera B rappresentava ad esempio una casa e la D un pesce, la E un uomo con le braccia alzate, la lettera H un recinto chiuso etc. Se non sappiamo se nelle parole stia l’origine dell’ universo, possiamo dirci tuttavia sicuri del fatto che esse siano per l’uomo l’origine del suo mondo e che il suo potere non possa da queste prescindere: limitare la libertà di espressione mutila quella d’essere, facendo degli uomini degli schiavi. Zittire qualcuno significa infatti impedirgli di esistere e colui che è costretto ad obbedire a tale divieto lo sa meglio di chi glielo impone.
È possibile, partendo dalla libertà di parola costruire un intero mondo ed esserne padroni fino in fondo, non vi è alcuna possibilità invece di comperare, pur possedendo il danaro necessario, ciò di cui non si conosce il nome e dunque anche l’esistenza, né averne il desiderio.
Non c’è dubbio alcuno: il mondo appartiene a chi possiede le parole che definiscono quante più cose esistenti nell’universo.