Inchiesta
Riflessioni di fine d’anno
di MARIO GIANFRATE
Frammenti di ricordi. E di pensieri lontani. Dietro ognuno di essi, un’emozione. Di ruvida nostalgia per i momenti piacevoli vissuti e per quelli sgraditi, per il rammarico di quello che poteva essere e non è stato.
Frammenti di immagini. Qualcuna nitida, qualche altra sbiadita come una consunta pellicola in bianco e nero di un vecchio film. In bianco e nero. Colori netti, contrastanti, opposti. Luminosi o bui. Bianco e nero, appunto.
E’ il vecchio film della vita, di ognuno e di tutti, di attori e di comparse. Un film già visto in un immaginario Nuovo Cinema Paradiso, un film capace di suscitare sentimenti diversi, di gioia e di dolore, di riso e di pianto. Ma che si torna a vedere comunque, qualche volta, con cinico desiderio.
Volti e immagini scorrono impetuosi sullo schermo, e rivedi il bianco candore della neve del ’56, le intime vigilie di Natale quando, ingenuo fanciullo di una età ingenua, affidavi a una letterina nascosta sotto il piatto di papà, vaghe promesse o, come nelle torride estati di sole e di polvere, a un aquilone artigianalmente costruito i sogni del bambino che voleva volare sulla luna.
Un volto, una storia. Il compagno Calò, che aveva condiviso con mio nonno lotte e il carcere fascista; il mite fante Angelantonio che, sul Piave, pensò che quel fiume sarebbe stato la sua tomba. “Il pero è ormai maturo”, mi rispose quando, in una calda mattinata di una afosa estate, andai a trovarlo alla sua casa di campagna, sotto l’albero di un fico. A farmi intendere che alla sua età avanzata, si attende la fine giorno dopo giorno, come qualcosa di ineluttabile a cui bisogna rassegnarsi, farsene una ragione senza pensarci troppo.
Era uno dei ragazzi del ’99, poco più che adolescenti, mandati a morire sul fiume maledetto per tamponare le deficienze di un Generale invasato e crudele. Poveri Cristi mandati al macello senza che ne avessero una buona ragione: la loro Patria era la terra che coltivavano e che gli dava da mangiare, dei sacri confini non gliene importava niente. Eravamo noi, semmai, che avevamo invaso i confini di una altro paese.
Gli chiesi di parlarmi della paura. Della paura di quando, saltavano fuori dalla trincea per lanciarsi nell’assalto alla baionetta, tra sibili di proiettili e scoppi di bombe.
Certo che avevi paura, paura di cadere sul campo della “gloria” digrignando i denti, invocando “mamma”, esalando l’ultimo respiro senza avere il tempo di chiederti perché. Ma non avevi scampo, non c’erano vie di fuga: se indugiavi, se tentavi di aggrapparti a una fallace speranza nascondendoti dietro un riparo occasionale, dietro di te, protetti nella trincea, gli ufficiali e i carabinieri ti sparavano addosso.
E ancora, Giovanna, strappata alla vita e un cuore senza rassegnazione. E don Lino. Don Lino e la sua umanità, in grado di dissipare dubbi e alimentare speranze. Al funerale del fratello, militante nella sinistra estrema, citò don Milani: So di aver amato più i poveri che Dio, ma Dio metterà tutto sul suo conto. In molti ci sentimmo compresi.