Attualità
Quarant’anni senza Stefano Furlan
Mi chiamo Stefano Furlan ed avevo vent’anni. Una volta ho fatto a botte, perché uno infastidiva la mia ragazza. Ce le siamo date di santa ragione. Due ragazzi lui ed io e ciascuno faceva stupidaggini rappresentando però sé stesso, non lo Stato.
Mi chiamo Stefano Furlan, abito a Trieste ed ho vent’anni. Quest’anno termino gli studi da geometra. Non so ancora se continuerò a lavorare nel negozio di fiori o se cercherò un nuovo impiego. Vivo con mia madre e mia nonna. Mio padre non so chi sia. Mi piace andare allo stadio a tifare per la mia Triestina. Sono curioso, tante cose non le so e sto cercando di capire cosa voglio diventare. Credo di piacere alle ragazze: quando ne guardo una negli occhi mi domando se pensa le stesse cose a cui penso io. Per il momento però mi diverto con i miei amici e nel cuore ho solo la Triestina. Anche ieri sono andato allo stadio: abbiamo pareggiato contro l’Udinese. Mi sarei aspettato di più ma pazienza! “Mi consolerò in macchina ascoltando Gloria”, ho pensato e così sono uscito dallo stadio per raggiungere la mia Fiat 128. Quattro agenti però mi hanno fermato e qualcuno mi ha colpito. Ricordo solo un grande dolore alla testa mentre uscivo dalla questura e raggiungevo l’auto per tornare a casa. “È ormai sera, sono le nove e chissà cosa dirà mia madre di questo ritardo” pensavo. Per fortuna lei e nonna erano più preoccupate che arrabbiate. Continuavo a sentire dolore. Vado a letto, ho tanto sonno. A mia madre in questura dicono che stavo danneggiando un’auto quando mi hanno fermato, ma io non lo ricordo. Cinque di trenta testimoni dicono di avermi visto mentre un poliziotto mi afferrava per i capelli e mi sbatteva la testa contro il muro di cinta dello stadio.
Dei quattro agenti rinviati a giudizio solo un ragazzo di ventuno anni verrà condannato per eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi. La sua versione dei fatti risulterà ridicola: mi avrebbe manganellato per sbaglio. Voleva colpirmi alla spalla ma mi sono girato ed il colpo è finito sulla mia testa. Insomma mi sono manganellato da solo. So che lo hanno condannato ad un anno di reclusione e che essendo incensurato non ha trascorso un solo giorno in carcere. Anzi, nel 1999 ha rappresentato l’Italia nei campionati mondiali militari di triathlon a Stoccolma. Un mio coetaneo dunque mi avrebbe colpito. Un ragazzo con le stesse cose in testa che ho io, ma con un manganello in mano. Dice di avermi aiutato ad alzarmi e a poggiarmi su una macchina. Una stupidaggine. Un ragazzo che come tutti i ragazzi dice stupidaggini senza dare grande peso al fatto che lo siano. Come me che però sono abituato per lavoro a tenere in mano solo fiori. Due ragazzi, lui ed io ad uno dei quali però era stato dato l’ordine di usare la forza negli scontri con i tifosi. Già la forza. Una volta ho fatto a botte, perché uno infastidiva la mia ragazza. Ce le siamo date di santa ragione. Due ragazzi lui ed io e ciascuno faceva stupidaggini rappresentando però sé stesso, non lo Stato. Mi domando ancora cosa stessi combinando prima di essere colpito, forse facevo una stupidaggine, una di quelle che fanno i ragazzi o forse no.
Mi sono spento dopo venti giorni di coma. Sul muro di cinta dello stadio una targa mi ricorda. Ancora oggi, dopo quarant’anni quando allo stadio viene intonato il coro “Trieste la curva non l’ha dimenticato: Stefano Furlan, ucciso dallo Stato”, la società riceve una multa di cento euro per oltraggio nei confronti dello Stato.
Ma l’oltraggio fatto ai miei vent’anni, al tempo che sarebbe stato e che non ho conosciuto chi lo punirà?
Una volta ho fatto a botte, perché uno infastidiva la mia ragazza. Ce le siamo date di santa ragione. Due ragazzi lui ed io e ciascuno faceva stupidaggini rappresentando però sé stesso, non lo Stato.
Rosamaria Fumarola
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