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La dignità dei poveri come elemento di coesione sociale

È legittimo se si ha fame mangiare, magari rubando? Il diritto ci insegna che no, non è legittimo rubare, neanche quando si sia affamati, tuttavia qualche riflessione sulla questione non potrà che giovare al nostro senso critico.

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 È legittimo se si ha fame mangiare, magari rubando? Il diritto ci insegna che no, non è legittimo rubare, neanche quando si sia affamati, tuttavia qualche riflessione sulla questione non potrà che giovare al nostro senso critico, se partiamo dal diritto come insieme di norme condivise dalla società civile, che si è accordata per sanzionare il furto della proprietà altrui, impedendo conflittualità che renderebbero difficile la convivenza. Qualunque norma trova in genere la sua ratio in questo basilare principio. Da ciò discende che ogni legge, per il solo fatto di essere accordo, convenzione tra cittadini sia giusta? A parer mio è giusta quanto più è espressione di tutte le classi che compongono la società. Dunque, il grado di civiltà di un paese democratico si può misurare verificando, tra le altre cose, quanto tenga conto di tutte le parti sociali nella creazione del proprio ordinamento. Nessuna società infatti storicamente si è mai retta senza norme condivise, ma ciò non significa che tutte le società in cui l’essere umano si è organizzato nei secoli siano state giuste. Lo sono state nella misura in cui chi ha prodotto le norme lo abbia fatto per tutelare e perpetuare il proprio potere oppure per tutelare e perpetuare il benessere condiviso da tutti ed è evidente quanto questo processo sia il risultato di un lungo percorso costatoci lacrime e sangue ed ancora in fieri, il cui avanzamento sia spesso dipeso dalla responsabilità che taluni si sono assunti, di violare norme esistenti ingiuste per fare posto a nuove, che tengano conto anche dell’esistenza di altri, oltre di quelli già tutelati.

Un momento fondamentale in questo percorso è stato quello rappresentato, per citarne solo uno, dalla Rivoluzione francese che, nonostante le note contraddizioni e palesi violazioni del comune senso di giustizia che con sé ha inevitabilmente portato, continua a rappresentare un poderoso salto in avanti nell’evoluzione del diritto e della civiltà occidentale.

In tutto questo se, con un minimo di impegno si adopera una lente d’ingrandimento e si vanno a studiare gli ordinamenti giuridici che nei secoli si sono avvicendati, non potremo non notare che quanto ho poc’anzi sinteticamente esplicitato, tanto esplicito illo tempore né poteva, né doveva apparire e ad esempio, il potere legislativo non doveva sembrare espressione solo della tutela dei potenti, benché esattamente così fosse, ma espressione di tutti. E rimanendo in tema, come non ricordare i tempi in cui l’assicurazione della cogenza delle leggi veniva “affidata” alla presunta volontà divina di scegliere come sua diretta emanazione quel sovrano piuttosto che un altro, nell’abbraccio mai innocente tra potere spirituale e potere temporale?

Comunque la si pensi nessuno di noi potrebbe però spingersi fino al punto di considerare questi fenomeni come migliori e più democratici di quelli che animano il potere politico attuale. Fino infatti a tempi tutto sommato non molto lontani da noi, nessun cittadino avrebbe mai messo in discussione il potere di un re e tantomeno di un papa, ritenendolo quasi il frutto dell’ordine naturale del creato, che nessuno mai avrebbe potuto cambiare.

Ciò non significa che non vi fosse un sistema che in un certo qual modo assicurasse il welfare delle classi più disagiate, attraverso ad esempio la costruzione di ospedali che, da un lato accoglievano e curavano le masse dei bisognosi e dall’altro garantivano che quelle stesse masse continuassero a sostenere i  potenti che mettevano a disposizione le proprie risorse finanziarie per costruirli, garantendo il mantenimento dello status quo.

In un sistema di potere e conseguentemente valoriale tanto rigido, l’indigente era persuaso del fatto di non poter mutare la propria condizione, che gli apparteneva dalla nascita e di cui comunque si vergognava, non ritenendo tuttavia (per lo stato di ignoranza in cui si preferiva lasciarlo) il potente responsabile della sua disgrazia, perché quest’ultimo da sempre esercitava le proprie prerogative secondo dinamiche che dovevano rimanere occulte.

Il povero era perciò felice se governava la sua vita con un ambiguo strumento messogli a disposizione proprio dal ricco e cioè la dignità, una sorta di arma senza munizioni, un abito trasparente, un valore che si traduceva nel potere di dire no ad un qualsivoglia bene, piccolo o grande che gli venisse offerto, ma che egli ritenesse non rientrare nel proprio diritto naturale. Pertanto il povero dignitoso ambiva a mantenere la sua famiglia facendo appello esclusivamente ai propri mezzi, aborriva l’elemosina, insomma era povero ma questa sua capacità di dire di no lo elevava dall’essere in balia del bisogno alla stregua di un animale, al rango di appartenente alla società civile, sia pure organizzata da altri secondo i criteri e gli interessi che a questi ultimi facevano più comodo. Non è difficile immaginare che forse, l’orgoglio della nuda dignità esibita dal povero facesse  sorridere i potenti, consapevoli di aver regalato agli umili un piatto vuoto di cui essi invece, per nessuna ragione al mondo sarebbero andati fieri.

Ma quanti tra gli umili di oggi ritengono imprescindibile nell’educazione dei figli trasmettere proprio il valore della dignità?

In primo luogo converrà anticipare che se tra i cittadini meno abbienti del nostro paese si ritiene non più doverosa trasmettere il senso della dignità qualcosa dovrà pur significare. Come poc’anzi ho cercato di chiarire, la dignità è un bene immateriale, culturale, voluto da quanti si siano avvicendati al potere per consentire anche ai poveri una partecipazione alla società, attraverso l’astensione ad esempio da pratiche illecite come il furto. Insomma, attraverso il valore della dignità dell’indigente  si veniva a garantire la pace tra le parti sociali, poiché se il povero accettava di tenere un certo comportamento non lesivo essenzialmente del diritto altrui all’esercizio della proprietà, era accolto con favore all’interno del consorzio civile. L’espressione “povero ma dignitoso” è da intendere dunque in tal senso e con tale funzione.

La scomparsa negli italiani (non solo indigenti) della dignità come valore da trasmettere ai figli di cosa ci parla dunque? Cosa ci dice? Ci dice  che in un certo sistema valoriale non viene più ritenuta funzionale all’entrare a far parte della società e questo perché la sola cultura che il sistema attuale riesce a trasmettere è quella consumistica, legata esclusivamente al danaro ed a quanto con quel danaro si sia in grado di acquistare. Solo il comprare e consumare è funzionale all’attuale sistema e quasi certamente, anche il fallimento della trasmissione dell’istruzione veicolata a scuola trova in gran parte in ciò la sua spiegazione.

La sola dignità nella quale ci possiamo imbattere nelle strade delle nostre città è quella dei tanti immigrati provenienti da aree asiatiche come indiani, cingalesi, cinesi etc.

Svolgono essenzialmente attività legate alla vendita al dettaglio di alimentari e di abbigliamento preferendole a quelle illegali ed hanno nei quartieri in cui vivono, centri nei quali si riuniscono, trascorrendo insieme anche il tempo libero, il tutto senza che coloro i quali invece quelle città le abitano da sempre, ne abbiano danno o molestia  alcuna.

Se è vero quanto detto poco fa a proposito della scomparsa della dignità come valore per gli italiani, va tuttavia rilevato che tra questi immigrati invece, essa svolge ancora un ruolo che certamente era funzionale alle società da cui provengono e che ritengono possa esserlo anche per quella nella quale vogliono entrare a far parte.

C’è da domandarsi se sarà così anche per i loro figli. Personalmente ritengo che i giovani che si formano nel nostro paese saranno latori della nostra stessa cultura.

Tuttavia non è da escludersi che la necessità di mantenere una propria identità, che sta accompagnando dovunque la globalizzazione possa portarli in direzioni diverse, mantenendo i tratti caratteristici della propria cultura d’origine, come appunto il senso di una misurata e composta dignità, che noi abbiamo irrimediabilmente perduto e che per fortuna costoro ci ricordano ancora esistere.

Rosamaria Fumarola

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Giornalista pubblicista, scrittrice, critica jazz, autrice e conduttrice radiofonica, giurisprudente (pentita), appassionata di storia, filosofia, letteratura e sociologia, in attesa di terminare gli studi in archeologia scrivo per diverse testate, malcelando sempre uno smodato amore per tutti i linguaggi ed i segni dell'essere umano