Mettiti in comunicazione con noi

01 Dicembre 2025

Guerra annunciata: quando Washington ammette che il Venezuela è “un parco giochi” per il petrolio

Denunciare questa guerra prima che cada la prima bomba è oggi un gesto minimo di solidarietà e lucidità.

Pubblicato

su

Di Marlene Madalena Pozzan Foschiera

Per decenni gli Stati Uniti non hanno mai ammesso di fare guerre per difendere interessi economici. La CIA (l’agenzia di intelligence statunitense) ha rovesciato governi, armato gruppi, sabotato intere economie – sempre nell’ombra, sempre con un discorso “pulito” in vetrina: “democrazia”, “diritti umani”, “guerra alla droga”.

Nel caso del Venezuela non è stato diverso. Sotto Donald Trump, Washington ha autorizzato operazioni segrete per destabilizzare il governo di Nicolás Maduro, combinando sanzioni economiche, tentativi di colpo di Stato, sabotaggi e la creazione di un “presidente ad interim” riconosciuto solo da una parte dell’Occidente. È la vecchia ricetta dell’intervento, ancora avvolta dal mantello del segreto.

Quello che cambia oggi è qualcosa di più grave: la guerra smette di essere segreta per essere annunciata come affare in diretta televisiva.

La deputata che ha “dimenticato” il copione ufficiale

In un’intervista a Fox Business, la deputata repubblicana María Elvira Salazar, della Florida, alleata di Trump e figura conosciuta per la linea dura contro Cuba e Venezuela, ha affermato che gli Stati Uniti stanno “about to go in” – “per entrare” – in Venezuela.

Non parlava di diplomazia. E ha spiegato il motivo con una franchezza brutale: per le compagnie petrolifere statunitensi, il Venezuela sarebbe un vero “parco di divertimenti”, con oltre mille miliardi di dollari di attività economica.

In altre parole: né “democrazia”, né “libertà”, né “lotta al narcotraffico”. In gioco, detto in inglese chiarissimo, c’è il petrolio.

Ciò che per decenni restava chiuso nei rapporti riservati oggi appare sulla bocca di una deputata in prima serata: un Paese di 30 milioni di persone viene trattato come bottino, un territorio-premio da spartire fra le corporation.

Dalla “guerra sporca” alla guerra annunciata

Mentre la deputata parla apertamente di “entrare” in Venezuela, il governo Trump conferma di aver autorizzato azioni coperte della CIA nel Paese. Allo stesso tempo cresce la presenza militare degli Stati Uniti nei Caraibi, ufficialmente in nome della “lotta al narcotraffico”. Il vecchio linguaggio della “guerra alla droga” viene riutilizzato per giustificare lo spostamento di navi, aerei e truppe nella regione.

Ma le parole di María Elvira Salazar svolgono un ruolo pedagogico involontario: mettono insieme ciò che Washington cerca di tenere separato.

Da una parte, il discorso ufficiale:
– “cartelli”, “terrorismo”, “droga”, “corruzione”.

Dall’altra, la vera priorità, confessata dalla stessa deputata:
– trasformare il Venezuela in una gigantesca opportunità di affari, un “banchetto” da oltre mille miliardi di dollari per le compagnie petrolifere statunitensi.

La “guerra segreta” e la “guerra annunciata” sono due facce della stessa medaglia.

Petrolio, sanzioni e cambio di regime

Il Venezuela possiede una delle più grandi riserve di petrolio del pianeta. Dal 2019, le sanzioni degli Stati Uniti e di alleati europei colpiscono direttamente la PDVSA, l’azienda petrolifera statale venezuelana, bloccando le esportazioni, congelando beni all’estero e soffocando le entrate dello Stato.

Non è la prima volta che vediamo questo copione:

  • in Iran, il colpo di Stato contro il primo ministro Mossadeq, nel 1953, è stato legato direttamente alla nazionalizzazione del petrolio;
  • in Iraq, l’invasione del 2003 è stata giustificata con menzogne sulle “armi di distruzione di massa” mai trovate, ma ha riorganizzato il controllo sul petrolio iracheno.

In Venezuela, il pacchetto di giustificazioni include “narcotraffico”, “frode elettorale” e “Stato fallito”. Ma, in fondo, il messaggio è chiaro: un Paese con petrolio, che cerca di controllare le proprie risorse e si avvicina ad altri poli di potere – come Cina, Russia o il blocco dei BRICS – viene visto come un ostacolo da rimuovere.

Guerra contro un Paese… e contro un’intera regione

Un intervento militare degli Stati Uniti in Venezuela non sarebbe un problema solo per i venezuelani. Sarebbe uno scossone per tutta l’America Latina:

  • aumenterebbe l’instabilità politica nei Caraibi e in Sudamerica;
  • potrebbe trascinare Paesi vicini, come Colombia e Brasile, in un’escalation permanente alle frontiere;
  • creerebbe nuovi flussi di rifugiati e una crisi umanitaria regionale.

Cuba ha già denunciato pubblicamente che Washington prepara un “rovesciamento violento” del governo venezuelano. Settori progressisti nella regione avvertono del rischio di ripetere – in pieno XXI secolo – la logica delle “intervenzioni esemplari”: colpire un Paese per disciplinare tutti gli altri.

Il messaggio è semplice e terribile: qualunque nazione osi rivendicare la propria sovranità sulle risorse naturali strategiche può essere messa in fila per una “operazione di cambio di regime”.

Il mondo è cambiato – nel cinismo

La domanda che rimane è: il mondo è cambiato?

In fondo, la logica di base non è cambiata. Dal dopoguerra in poi, la politica estera degli Stati Uniti combina discorso morale e calcolo economico. Quando ci sono petrolio, gas, minerali rari, rotte strategiche, la “difesa della democrazia” cammina spesso mano nella mano con gli interessi delle grandi corporation.

Quello che è cambiato è il grado di cinismo pubblico.

Se prima la gran parte dell’ipocrisia restava nei memorandum segreti, oggi una deputata può andare in televisione e ridurre il problema a “mille miliardi di dollari”. Ciò che prima richiedeva almeno uno sforzo di travestimento – “armi di distruzione di massa”, “minaccia comunista”, “guerra alla droga” – ora viene rivendicato quasi come un merito: c’è denaro sul tavolo, non possiamo lasciarcelo sfuggire.

In un mondo in cui i miliardari sono trattati come celebrità e le disuguaglianze esplodono, la trasformazione di interi Paesi in “occasioni di investimento” viene detta senza vergogna.

Perché questo riguarda anche noi

Scrivere di questa guerra annunciata contro il Venezuela non significa difendere automaticamente il governo Maduro, né negare i problemi interni del Paese. Significa affermare qualcosa di più elementare: nessun popolo dovrebbe essere condannato a bombe, blocchi e invasioni perché siede su un giacimento di petrolio o decide di scegliere un altro percorso geopolitico.

Per i Paesi latinoamericani, accettare in silenzio questa escalation significa normalizzare l’idea di essere ancora un cortile energetico: se esportiamo ciò che conviene, con la politica estera che conviene, possiamo sopravvivere; se osiamo affermare sovranità, diventiamo un bersaglio.

Per l’Europa, che afferma di difendere il diritto internazionale, appoggiare – o semplicemente tollerare – un attacco annunciato contro il Venezuela è un’ennesima capitolazione all’atlantismo: invece di costruire una politica estera autonoma, si segue l’agenda di Washington, anche quando questo significa incendiare un’intera regione.

La frase di María Elvira Salazar è scioccante, ma anche illuminante. Quando una potenza inizia a dire, senza giri di parole, che un Paese è “un parco giochi” da mille miliardi di dollari per le sue compagnie petrolifere, sta dicendo anche che la vita di ogni persona che vive lì vale meno di un barile.

Denunciare questa guerra prima che cada la prima bomba è oggi un gesto minimo di solidarietà e lucidità.