16 Novembre 2025
MEMO/RANDOM: il CARCERE MINORILE di ROMA.

Di Bruno Rapisarda
Febbraio 1973, mi chiama al telefono una affettuosa amica di quel tempo, Pinella Mostardi (sono andato a cercare il nome nell’archivio della mia personale memoria), mi propone di fare una supplenza di matematica per la Scuola Media nella quale lei svolge attività di assistente sociale.
Io non mi ero ancora laureato… in quell’anno avrei preparato la tesi. Avevo bisogno di lavorare… avevo bisogno dei soldi per vivere e dedicarmi alla tesi.
“Bene! Di che si tratta?” – chiesi – “devi andare ad insegnare matematica al Carcere Minorile di Casal del Marmo a Monte Mario… c’è una sezione staccata della Scuola Media “Fratelli Cervi” di Corviale, dove io lavoro. Devi sostituire una insegnante che è andata in congedo temporaneo per gravidanza e puerperio… La supplenza durerà fino alla fine dell’anno scolastico.”. “Bene!” – risposi – e presi appuntamento per incontrare la preside dell’Istituto.
Andai, e mi affidò l’incarico… nonostante il mio aspetto niente affatto rassicurante… o, forse, proprio per questo, dovendo insegnare a dei giovani “delinquenti”… chissà?
A Roma, il Carcere Minorile si trova alla periferia – a quei tempi estrema – di Mante Mario Alto: via Barellai – una traversa di via Trionfale… in aperta campagna.
Arrivai una fredda mattina di febbraio… l’edificio basso e isolato si trovava alla fine di una stradina poco frequentata. Suonai, mi aprirono e mi accompagnarono nella “sala professori” ricavata dall’ex portineria: un angusto stanzino dove altri insegnanti stazionavano in attesa dell’inizio delle lezioni.
Voglio presentarli così come li ricordo, con le loro luci e le loro ombre: la Monteleone, l’insegnante di lettere, una cinquantenne ancora non di ruolo… una madre di famiglia servile con la preside e maternamente affabile con tutti; A. A. – disegno – graziosa col suo aspetto vispo da ragazzina trentacinquenne… impegnata nell’attività di famiglia: il teatro delle marionette A; L – applicazioni tecniche – credo fosse un architetto, comunque, era particolarmente attento a farsi i fatti suoi e non avere noie; F S – insegnante di francese – ancora giovane, nonostante i suoi capelli bianchi… lo ricordo sempre con la giacca di velluto blu di un’eleganza dimessa, come ci si aspetta da un compagno… erede dei principi di Salina.
Infine, la insegnante di Scienze di cui – non a caso – non ricordo il nome… una quarantenne bionda ossigenata, scialba di aspetto ma rigida di princìpi.
Cercai di informarmi… I colleghi, solo su un punto erano d’accordo: quella sezione di Scuola Media dentro il carcere non serviva a nulla… ai ragazzi non fregava niente… qualunque fosse la materia, era impossibile fare lezione.
In attesa della mia ora, accompagnai in classe l’insegnante di italiano… i ragazzi stavano sparsi in modo informale, seduti o in piedi, raccolti in gruppi di 3, o 4, a parlare tra loro… finsero di non accorgersi nemmeno del nostro ingresso. Qualcuno di loro, dovendo scrivere alla famiglia o alla fidanzata, si avvicinò all’insegnante per farsi aiutare… questo era il suo unico “compito docente”, coerente in fondo con la sua materia. Poi, forse non sarebbe stata in grado di fare altro… era di un’ignoranza psicopedagogica disarmante… figurarsi che, vedendo tornare in prigione un ragazzo che, nonostante i suoi sedici anni, era rimasto alto come un bambino, pensò bene di ammonirlo: “Ne hai combinato qualcun altra, vero? Ecco perché non cresci.”… sublime!
Provai con l’insegnante di francese… F, entrò in classe col giornale e cominciò a distribuire caramelle ai ragazzi che le chiedevano… poi, seduto in cattedra, cominciò a leggersi il giornale… i ragazzi continuarono a parlare tra loro come prima del nostro ingresso. Di insegnare, neanche a parlarne. Non darsi fastidio a vicenda… questo era il patto. Effettivamente, che senso avrebbe avuto insegnare francese in quella sede… e poi, ne sarebbe stato capace? Non so. So soltanto che gli era stata conferita la cattedra di lingue in quanto laureato in giurisprudenza… a quei tempi – incredibile a dirsi – quella laurea consentiva di accedere alla “classe di insegnamento” di lingue… misteri della scuola italiana.
Mi bastò: avevo capito l’andazzo.
Quando arrivò il mio turno, entrai in classe con la ferma intenzione di far saltare quelle consolidate abitudini… anzitutto, dovevo cercare di eliminare la distanza istituzionale che si instaurava un tempo tra insegnante e studenti… col mio aspetto informale, non mi fu difficile.
Approfittando dell’indifferenza con cui anch’io venivo accolto… cominciai a passeggiare nell’aula avvicinandomi ai vari gruppetti per ascoltare i discorsi che facevano… specie i gruppi di “anziani”, quelli prossimi ai 18 anni, i più rispettati.
Le storie riguardavamo sempre lo stesso argomento: le loro “imprese”. I crimini di cui parlavano erano tutti riconducibili ai cosiddetti “reati contro il patrimonio”… andavano dal danneggiamento, alla truffa, dall’appropriazione indebita, al furto nelle varie forme: furto semplice, furto con violenza, rapina…
E ce n’era da raccontare… ciascuno aveva la sua specializzazione: c’era chi si dedicava allo scippo, chi sapeva sfilare con destrezza il portafogli dalle tasche o dalle borse, chi rubava le auto, chi era bravo nello scasso delle serrature degli appartamenti, chi nello scasso delle serrande dei negozi, chi sapeva come vendere la merce rubata, ecc. ecc.. Quelle storie venivano raccontate dai più grandi con una certa enfasi… per darsi le arie da uomini vissuti… e le narrazioni ascoltate assumevano spesso per i più giovani un sapore quasi epico. Quelle classi di Scuola Media, così come il Carcere – tutte le carceri – erano luoghi di formazione criminale: servivano ad alimentare le conoscenze necessarie per reiterare i reati con consolidata professionalità.
A me, questo, non importava, anzi… lo trovavo “naturale”… rientrava tutto nel modello sistemico della nostra società capitalista: questo pensavo… questo penso.
Che si compissero quei reati contro il patrimonio era statisticamente previsto e scontato… un certo numero di crimini, e un relativo numero di carcerati, è imposto dalla violenza del Sistema che esclude una parte dell’umanità dal rapporto lecito con produzione e consumo, per lasciare agli altri il diritto di farsi sfruttare – lecitamente – producendo e consumando.
Quello che invece mi importava – e tanto – era che quei ragazzi fossero consapevoli che la loro condizione delinquenziale serviva al Sistema che l’aveva preventivata, contabilizzata… e, sostanzialmente, voluta.
Loro, le estreme vittime del Sistema, dovevano sapere d’essere stati statisticamente previsti… che, in fondo, anche loro erano funzionali al nostro modello di società… come lo sono i macellai, o gli impiegati di banca.
Lo Stato, invece, li aveva già condannati… per quei crimini di cui erano certamente colpevoli…
erano certamente colpevoli di essere nati nel fango e nella miseria, colpevoli d’essere cresciuti senza famiglia o in famiglie disastrate, colpevoli di vivere nella violenza e nel degrado…
colpevoli di provenire tutti (o quasi) da quei “borghetti” di baracche che si trovavano alla periferia della Città (*).
Quest’ultima, era da loro stessi vissuta come colpa… una colpa così mortificante che, quando si apostrofavano tra loro con intenzioni offensive, si chiamavano l’un l’altro: ‘baraccato’.
Quei ragazzi, erano colpevoli della loro degradante condizione, e senza alcuna speranza di poterla cambiare.
Col marchio di infamia del baraccato prima, e del ladro poi, accettavano come naturale l’emarginazione sociale in cui vivevano.
Immaginavo che la consapevolezza delle ragioni sociali di quel loro stato li avrebbe potuti emancipare culturalmente, e moralmente, dalla loro condizione di emarginati, vissuta come colpa…
(*) l’evidenza che quasi tutti quei ragazzi provenivano dalle aree più disastrate della Città, era la palese dimostrazione che il loro comportamento “criminale” dipendeva dal degrado sociale in cui erano cresciuti. Vivere in quei borghetti era la condizione criminogena… a meno di non voler sostenere che i baraccati fossero – geneticamente – una “razza criminale”.
Avevo conosciuto sin dalla fine degli anni sessanta il mondo dei borghetti (Borghetto Prenestino, Prato Rotondo, Borghetto Latino, Acquedotto Felice…), facendo “lavoro di borghata” – cosìlochiamavamo – con un gruppo di studenti della Facoltà tra cui: Paolo Ramundo, Roberto Federici (detto diavolo), Paolo Liguori (detto straccio), Franca Scoponi (detta Patrizia), ed altri di cui non ricordo il nome… avevo visto le condizioni in cui vivevano.
Andavamo per “risvegliare le coscienze”… quella loro condizione di immigrati irregolari confinati nelle periferie degradate delle grandi città, avrebbe dovuto accomunarli nell’appartenenza alla stessa categoria di esclusi… gli ultimi nella catena dello sfruttamento del sistema capitalistico.
Ma la loro condizione era senza alcuna possibilità di riscatto collettivo… non si sentivano comunità. Pur vivendo una comune realtà disastrata… ognuno credeva di trovarsi lì per caso, che presto ne sarebbe uscito… pensava di essere diverso dagli altri, certamente qualcosa di più. Sì, perché lì, la gerarchia sociale era più sentita che altrove: nessuno si riteneva uguale al suo vicino che, possibilmente, detestava… proprio così.
Ricordo… a Prato Rotondo, le baracche erano disposte ai due lati di una valletta in fondo alla quale scorreva la marana… lì, la stratificazione sociale dipendeva dalla posizione rispetto al rivolo di fogna che scorreva a valle…
chi abitava nei quartieri alti disprezzava quelli in basso… quelli più vicini alle acque di scolo degli scarichi.
Non accettavano di riconosce neppure la comune identità di baraccati… anzi, ciascuno rifiutava per se stesso quella definizione, ma – curiosamente – la riteneva appropriata per il suo vicino… non serviva l’evidenza del loro comune stato.
Quella scuola nel carcere mi dava l’occasione per sollecitare la loro consapevolezza. Ero convinto che bastasse educarli al pensiero critico… abituarli a svolgere ragionamenti astratti per passare dalla loro degradante realtà, ai motivi che l’aveva generata. Aiutarli a capire che quella loro condizione non era frutto del destino, o del caso… che era dovuta al modello di società nella quale vivevano… che erano figli della violenza del Sistema… e che ora – naturarmente – quella violenza la stavano restituendo alla società che l’aveva generata.
Immaginavo che la loro possibilità di riscatto dipendesse dalla capacità di svolgere “processi di astrazione”… Così, avrebbero potuto capire che dietro ogni cosa c’è una ragione… io, mi sarei incaricato di attivare quei “processi”.
Quelle aule scolastiche erano luoghi di incontro dove potevano raccontarsi le imprese di “delinquenza minorile” di cui erano stati protagonisti… quello era il tema privilegiato dei loro discorsi… di quello avrei parlato per suscitare il loro interesse.
Alla prima occasione, chiesi se qualcuno di loro aveva mai sentito parlare della “banda del buco”… poi, spiegai che fare un buco in una parete, o in un solaio, non era difficile, bisognava però sapere come… avere la necessaria conoscenza delle leggi fisiche che avrebbero consentito di eseguire quel buco con certezza ‘matematica’ (la mia materia d’insegnamento)… “E facile…”, affermai, “basta sapere che bisogna esercitare una pressione che superi la resistenza di quella parete, o solaio, ad essere bucata. Ora, supponiamo che serva una pressione 100…”. – mi misi alla lavagna e scrissi: P=100. – “Ma cos’è la pressione?” – chiesi… e spiegai – “È la Forza che si esercita su un’Area”. – E scrissi: P=F/A. – “Questa e’ la formula della pressione… Per fare un buco su una parete, o in un solaio, dobbiamo vincere la resistenza di quella parete, o quel solaio… e abbiamo due possibilità: aumentare la Forza, che misuriamo in chili, o diminuire l’Area in cm2 su cui quella forza si esercita.”. – mi guardavano stupiti. Proseguii… – “Quindi, per ottenere la pressione che serve: P=100, possiamo utilizzare una Forza di 1000 chili su una Area di 10 cm2…” – scrissi: 100=1000/10 – “Oppure, una Forza di 500 chili su una Area di 5 cm2” – crissi: 100=500/5 – e conclusi: “minore è l’Area del buco, minore è la Forza che serve… per la stessa ragione per cui un chiodo ben appuntito buca facilmente anche usando pochissima forza.” …avevo risvegliato la loro attenzione.
La volta successiva, continuai con lo stesso argomento: la necessità di utilizzare un approccio scientifico all’attività criminale per avere risultati certi… – dissi: “volete entrare in un negozio forzando la serranda? Suppongo che userete un piede di porco. Bene, ma come fate ad essere certi che riuscirete ad eseguire lo scasso? Facile: basta sapere che il piede di porco è una leva…” – andai alla lavagna e disegnai schematicamente il ‘piede di porco’: un’asta con un piccolo gomito ad una delle due estremità – “supponiamo che la serranda opponga una forza ‘resistente’ di 100 chili…” – scrissi: Fr=100 sull’estremità col gomito – “vi basterà applicare una forza, che chiameremo ‘agente’, di 10,1 chili…” – scrissi: Fa=10,1 sull’altra estremità dell’asta – “per riuscire a forzare la serranda. Questo è possibile perché la leva moltiplica la vostra forza di 10,1 chili per la sua distanza dal fulcro…” – crissi ‘fulcro’ nell’angolo formato dal gomito della leva – “che è di 100 centimetri, mentre la distanza della serranda dal fulcro é di soli 10 centimetri…” – scrissi le due moltiplicazioni e il risultato: 10,1×100=1010 100×10=1000 1010>1000.
Anche stavolta avevano capito, e sembravano convinti della mia spiegazione.
Andai avanti per quasi 2 mesi con queste dimostrazioni dell’importanza di ragionare usando il metodo scientifico. Arrivai persino a spiegare il funzionamento di una pistola:
il dito che preme sul grilletto… il cane che agisce sul percussore, questo che colpisce l’innesco della cartuccia, così si avvia la combustione, e spara fuori il proiettile dalla canna… e la sua traiettoria parabolica dovuta all’attrito dell’aria e alla forza di gravità a cui è soggetto… il tutto, corredato da disegni alla lavagna.
Alla fine… erano persuasi della utilità del metodo scientifico.
Poco prima delle vacanze di Pasqua, fui avvicinato da un gruppetto dei più grandi… mi proposero senza mezzi termini: “professo… organizziamo ‘na rapina scientifica?”.
Che attestato di fiducia… e che onore! Mi stavano proponendo la partecipazione ad un crimine comune… ma io… mi mancavano le basi. Tuttalpiù, avrei potuto partecipare ad un crimine politico.
Tergiversai…
Dopotutto, la loro condizione non era la mia… avevo altre necessità, io.
Ahimè, stava andando tutto così bene… mi resi conto che avrei dovuto cambiare registro.
Approfittai delle vacanze pasquali per studiarmi un approccio didattico meno ‘concreto’… applicabile al solo ragionamento.
Sapevo di averli fidelizzati… forse avrebbero seguito le mie lezioni qualunque argomento avessi loro proposto.
Era da un po’ di anni che mi dedicavo alla fotografia… avevo tutta l’attrezzatura anche per la stampa, e una collezione di foto veramente sorprendente… pensai di usarle proiettandole per mezzo dell’ingranditore che mi serviva per la stampa come fosse un proiettore.
Al rientro, mi presentai ai ragazzi col mio ingranditore, le pellicole, e avviai la proiezione su una parete dell’aula…
Subito, mi sembrarono disorientati da quella novità… non mi scomposi. Cominciai proiettando il fotogramma di un uomo che camminava al tramonto lungo un litorale sabbioso… poi, chiesi:
“A cosa vi fa pensare questa immagine?”.
Dopo un iniziale imbarazzo, qualcuno azzardò: “solitudine”... un altro propose: “libertà”. Associai quelle due risposte per chiedere a tutti quale possibile rapporto ci fosse tra ‘solitudine’ e ‘libertà’. Nonostante le loro contrastanti reazioni, la partecipazione a quel mio esperimento fu corale… ed estremamente positiva. Avevo trovato il modo di coinvolgerli ancora, elaborando ragionamenti e riflessioni che avrebbero alimentato il loro pensiero critico… questo era in fondo il mio obiettivo… dovevo procedere su questa strada.
I ragazzi venivano anche dalle altre aule per seguire quelle mie bizzarre “lezioni”. Questo, suscitò un interesse (preoccupato) da parte degli altri insegnanti… volevano capire come ero riuscito a coinvolgere con la mia strana didattica anche gli “studenti” più riottosi. Si formò una commissione di insegnanti decisa a presenziare ai miei esperimenti… non potevo sottrarmi. Chiesi solo di limitare la loro partecipazione delegando non più di un insegnante per volta… non volevo turbare i ragazzi con la loro imprevista presenza.
Alla mia successiva lezione, volle assistere l’ineffabile insegnante di scienze. Cominciai con le solite proiezioni di immagini, aprendo il dibattito sul loro significato col metodo delle libere associazioni già descritto.
Era appena iniziato da parte dei ragazzi lo scambio delle interpretazioni e la loro elaborazione critica, che “l’Ineffabile” ritenne di dover dare il suo illuminato contributo domandando loro di punto in bianco:
“perché rubate?”.
A quella geniale domanda uno dei ragazzi rispose con appropriata boria: “io pe ccampa c’hò bisogno de du sacchi ar giorno… che, me li dai te?”.
Io ero talmente irritato da quell’ottuso intervento della docente che mi scappo: “fanno bene a rubare!”… a quella mia affermazione la prof. si alzò strillando: “No, questo è troppo”, e uscì sbattendo la porta. Aveva ragione, era come aver bestemmiato in chiesa: quello era il carcere… la sede in cui il furto veniva punito, NON legittimato.
Ma io la pensavo proprio così… in una società basata sul possesso del capitale, chi non ha speranza di possederlo è considerato un paria… per quest’ultimo, il riscatto sociale è possibile solo aggredendo il capitale altrui: è la soluzione immediata. L’altra possibile soluzione passa dall’aver acquisito la “coscienza di classe” necessaria per farla… la rivoluzione.
FANNO BENE A RUBARE???
Ecco che si scatenava contro di me l’ira di dio… rappresentata dalla preside che, sollecitata dagli insegnanti più retrivi, avrebbe voluto cacciarmi. Ma, ormai era arrivato maggio, e tra poco più di un mese la scuola avrebbe chiuso i battenti. Pensò di soffocare lo scandalo raccomandandomi moderazione per quel residuo di anno scolastico… escluso che sperassi d’essere richiamato per l’anno successivo.
Non potevo biasimarla, l’Istituzione carceraria doveva difendersi da chi, come me, avrebbe volentieri demolito quell’edificio con tutto il suo apparato repressivo.
La pena detentiva, secondo la Costituzione Italiana (art. 27), doveva servire anche al “trattamento rieducativo e reinserimento sociale” del condannato… il carcere, invece, era il parcheggio temporaneo dei disperati che – tornati in circolazione – avrebbero ritrovato le stesse condizioni che li avevano portati a compiere i reati per cui erano stati condannati… avrebbero reiterato il loro comportamento criminale, e sarebbero tornati in carcere. La Scuola dentro il carcere era complice di quella finzione rieducativa… quella era la sua unica, vera funzione… importava solo che fosse presente, non che funzionasse.
Oltre a noi insegnanti, considerati esterni (dipendevamo dalla Pubblica istruzione), il personale del carcere che si occupava del sostegno educativo ai carcerati era costituito dagli educatori… pochi, ma tutti – chi più, chi meno – di sinistra (da uno di loro fui sostenuto nella mia sperimentazione didattica più che dai miei stessi colleghi… mi piace qui ricordarlo: si chiamava, Ricci).
Il resto del personale era formato per la massima parte dalle guardie carcerarie… i secondini, anzi, i “superiori” come dovevano essere chiamati dai ragazzi, allo stesso modo dei secondini delle carceri per adulti.
Quella definizione stabiliva, nominalmente, il rapporto gerarchico che intercorreva tra carcerieri e carcerati… e, in effetti, superiori lo erano, specie in brutalità e ferocia… Dovevano esserlo, per affermare il loro dominio su quell’umanità resa “naturalmente” violenta… non a caso, molti dei secondini erano stati scelti tra quella stessa umanità socialmente degradata.
Di quella ferocia, talvolta ebbi sentore… la “scuola” si trovava in un’ala dell’edificio abbastanza lontana dalle celle… capitava però di vedere correre gruppi di secondini lungo i corridoi… e – dopo – le urla dei ragazzi valicavano i muri ed arrivavano fino a noi.
Una volta, mi capitó di trovarmi vicino ad una di quelle scene di violenza: sentivo gridare un ragazzo dietro una porta in fondo all’attiguo corridoio… era chiaro, i secondini lo stavano pestando. Pensai di intervenire… accorsero altri secondini che, con malcelata rabbia, me lo impedirono… la cosa si riseppe, corse voce che io ero dalla parte dei ragazzi.
Presto, mi fu chiaro che i superiori non mi sopportavano… Un giorno – dopo la lezione – andai a cercare uno dei miei studenti che mi aveva sottratto dal taschino della giacca una penna a cui tenevo… le guardie carcerarie mi accompagnarono fuori, nel campetto sportivo dietro l’edificio principale, e chiusero la porta a vetri. Il ragazzo che cercavo non c’era… non capivo perché mi avevano portato lì. Quando volli rientrare, però, non mi fu possibile: la porta era stata chiusa e chiave… bussai ripetutamente senza avere risposta… le guardie carcerarie da dietro la vetrata fingevano di non vedermi… poi, uno di loro mi fece capire a gesti che avrei dovuto attendere quello che teneva le chiavi… ovvero, i loro comodi. Dopo una mezz’ora, mi aprirono… celiavano, scusandosi per il contrattempo: avevo capito!
La penna, poi, mi fu restituita, ma senza la cartuccia d’inchiostro… al ragazzo serviva quella cartuccia… per fare cosa? I tatuaggi, naturalmente. A quei tempi non era consueto tatuarsi… nelle carceri invece se ne faceva un uso generalizzato… si tatuavano per gioco, per noia, e per dichiarare la loro appartenenza a quel mondo violento. Spesso si tatuavano sul braccio una fiamma dietro una grata di ferro, con la sritta: “l’inferno dei vivi”… un altro tatuaggio molto comune, fatto su uno o su entrambi i polsi, rappresentava le catene, o i “ferri”, con la scritta: “lega boia”. Quei “messaggi” erano per il mondo di fuori… principalmente, per la controparte: i giudici che li mandavano in carcere (“l’inferno dei vivi”), e le guardie che li ammanettavano (“lega boia”).
Il caso aveva voluto che proprio in quel 1973 io dovessi fare quella strana esperienza…
Sin dall’inizio di quell’anno i movimenti di lotta contro le condizioni di vita nelle carceri si erano manifestati facendo circolare volantini ciclostilati che denunciavano “l’apparato repressivo dello Stato capitalista nei confronti del proletariato, di cui le carceri erano l’espressione coercitiva”. A giugno, la lotta sfociò in aperta rivolta con l’occupazione di Rebibbia, prima, e di Regina Coeli, poi… i carcerati diedero fuoco a materassi, coperte, ecc.. Salirono sui tetti sventolando drappi rossi e gridando slogan contro la “Repressione di Stato”…
Io, avevo avuto contatti con quei movimenti di lotta… chiesi di avere un pacco di quei volantini… li portai al carcere di via Barellai… alcuni li distribuii di persona ai ragazzi di cui mi fidavo… gli altri – qualche centinaio – li sparsi nella sala in cui i ragazzi andavano per assistere alle proiezioni dei film.
A giugno, si era concluso il mio incarico… con quella ultima azione avevo esaurito il compito che mi ero dato.
Tornai a casa consapevole di aver commesso un reato (più precisamente: il reato di “istigazione a delinquere”, art. 414, c.p., che prevede da 1 a 5 anni di reclusione)… per alcuni giorni ebbi il timore che sarebbero venuti ad arrestarmi.
Quando arrivò il 27, andai a ritirare lo stipendio e – mentre ancora le carceri bruciavano – partii per le vacanze…
Dopotutto, la loro condizione non era la mia… avevo altre necessità, io.

