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Il cancro, tra tabù e colpa nel teatro di Antonio Minelli

Nell’immaginario collettivo l’ammalato di cancro non è un ammalato come un altro. Un paziente al quale venga diagnostico un tumore si trova all’improvviso a vivere una vita altra, che ha perso la maggior parte delle prerogative di una normale esistenza e che dunque si risolve in un calvario.

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Credit foto antoniominelli.it

Quante volte abbiamo sentito parlare del palcoscenico come di un luogo magico, di cui tutti, attori, registi, spettatori, subiscono la fascinazione? Del suo consentire il rapporto col pubblico, da cui chi fa teatro riceve ed a cui dà in uno scambio mutuo? Il teatro però, pur essendo magico non nasce solo per veicolare una magia, per essere magia, ma soprattutto per essere contenuto. È dunque in quanto tale, capace di fascinazione, ma non è un medium il cui scopo primario è la fascinazione: suo scopo è dire qualcosa. Il palcoscenico è perciò il luogo nel quale si fa teatro ed il teatro è espressione, come per qualunque medium e se è medium, mezzo tra chi dice e chi ascolta è da sempre fondamentale per i consorzi umani. Il teatro greco fu con le sue tragedie e le sue commedie imprescindibile per le società dell’epoca, che disponevano solo di esso per far giungere un contenuto al pubblico. Il fatto non trascurabile che i testi di Euripide o di Aristofane siano ancora oggi per noi significativi, ci testimonia la grandezza del messaggio che gli autori seppero elaborare e che quel teatro fu capace di veicolare. Molto tempo dopo la televisione avrebbe svolto un ruolo non dissimile, almeno nelle sue fasi iniziali. In tempi più recenti invece, a fare da cassa di risonanza è la rete. L’espressione dei contenuti è dunque oggi sempre più smaterializzata, ma questo non significa che debba essere per forza unidirezionale. Anzi, proprio internet permette un reciproco e continuo scambio di informazioni e contenuti fino a poco tempo fa inimmaginabile. Ma si può fare teatro usando la rete? Il regista ligure Antonio Minelli ritiene di sì ed a questo scopo sta portando avanti un progetto, che partendo dalla realtà concreta di spettacoli realizzati, ne crea una nuova, immateriale e fruibile attraverso la rete, riuscendo così a mantenere vivo il rapporto tra artista e spettatore in periodi come quello funestato dal Covid, che hanno messo in crisi i tradizionali sistemi, rendendoli non più accessibili. 

La scelta del regista continua anche con questa nuova esperienza, ad essere scelta di contenuti. Lo testimoniano gli episodi sul sito di Forme di Terre, tra i quali un superlativo “Giobbe”, con cui Minelli porta in scena la realtà ai margini della vita di una donna ammalata terminale di cancro. Potrebbe apparire un orientamento eccentrico rispetto ai temi da sempre oggetto del teatro del regista ed invece si tratta di una scelta che testimonia la sua capacità di cogliere i dati della realtà, di essere attento ai suoi fenomeni e di collocarli su piani su cui nessuno ancora li pone, anticipando i tempi.

Alle figure tradizionalmente considerate sempre ai margini della società ( prostitute, alcolizzati, ammalati psichiatrici, tossicodipendenti, indigenti etc.) società che da sempre si rifiuta di offrire loro integrazione, negli ultimi anni abbiamo infatti visto aggiungersi una nuova “categoria” suo malgrado confinata in un limbo in cui non avrebbe mai pensato di trovarsi: la categoria di coloro a cui la sorte ha riservato di ammalarsi di cancro. È possibile che chi mi stia leggendo reagisca con sdegno a questa osservazione e sarebbe comprensibile, perché, razionalmente tutti noi sappiamo che ammalarsi non è una scelta (almeno non conscia) e non può dunque essere una colpa, eppure tutto ciò che oggi ha a che fare con il cancro rappresenta un tabù, nonostante dappertutto si legga di statistiche che ci parlano di un allungamento dell’aspettativa di vita dei pazienti e di un miglioramento della loro condizione. 

Sì, a sentire i medici e luminari della scienza che partecipano ogni giorno ai vari talk , sembrerebbe che il peggio sia ormai alle spalle, che tutti abbiamo un accesso incondizionato alle cure mediche, che non esista malattia che non possa essere curata e che contro il cancro esistano ormai approcci sempre più mirati ed efficaci. Dev’essere senz’altro ed in gran parte vero, sebbene tutti noi registriamo un abbassamento della qualità delle cure offerte ai pazienti e sebbene tutti noi abbiamo esperienza della scoraggiante babele rappresentata dai nostri ospedali. La verità è che nonostante la medicina abbia oggi raggiunto risultati straordinari, sembra non disporre ancora di armi  forti abbastanza per fermare il cancro. Almeno questo è ciò che ciascuno di noi sperimenta sulla propria pelle senza intravedere alternative degne di questo nome. Nell’immaginario collettivo l’ammalato di cancro non è dunque un ammalato come un altro. Un paziente al quale venga diagnostico un tumore si trova all’improvviso a vivere una vita altra, che ha perso la maggior parte delle prerogative di una normale esistenza e che dunque si risolve in un calvario. A ciò si aggiunge una sorta di stigma, di maledizione che lo accompagna e che ne fa un reietto collocato suo malgrado ai margini della società. Tale sua collocazione è il risultato di fenomeni socialmente ed antropologicamente complessi e non semplificabili, in massima parte da lui, come da tutti noi consciamente o meno subiti, in massima parte impossibili da cambiare con uno schiocco di dita. Il ruolo svolto dall’arte diventa pertanto quello di individuare la deriva prodotta da quei fenomeni e sottoporla all’attenzione del pubblico, sviscerandone quanto più possibile i contenuti autentici ed è questo che ha fatto l’autore di “Giobbe” l’oncologo residente oggi negli Stati Uniti Lodovico Balducci, oltre ogni misura supportato dall’ eccezionale interpretazione  dell’ attrice Silvia Mastrangelo. Giobbe, la protagonista, si porrà molte domande. Molte le porrà al dio in cui crede, poche a quanti in un modo o in un altro fanno parte della sua vita, seguendo il filo raffinato di un pensiero dolente che si sforza di superare sé stesso, per capire e definire una volta per tutte l’essenziale e l’essenziale per Giobbe è l’amore, un amore come istinto ma anche e soprattutto educazione. 

Il tema si presta per sua stessa natura ad una serie di banalizzazioni, evitate però una ad una dalla forza di un messaggio lucido, reso alto dalla sua logica senza cedimenti, che “affronta” lo spettatore, ma che è il frutto del dolore e dunque può servire solo ad altri, proprio appunto allo spettatore. 

Antonio Minelli sceglie di portare in scena un dramma che non è privato, sebbene come tutto abbia anche una dimensione soggettiva, intima. Minelli decide con “Giobbe” di rappresentare una questione pubblica, quale è appunto la condizione in cui gli ammalati di cancro si trovano attualmente e loro malgrado a vivere e conferma ancora una volta la sua sensibilità nell’individuare  aspetti e ricadute del reale che sfuggono ancora alla coscienza dei più. Grazie a questo “contenuto” il teatro (non a teatro) riacquista quel ruolo che sempre dovrebbe appartenergli ed in assenza del quale rivela invece tutta la sua inutilità.

Rosamaria Fumarola

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Giornalista pubblicista, scrittrice, critica jazz, autrice e conduttrice radiofonica, giurisprudente (pentita), appassionata di storia, filosofia, letteratura e sociologia, in attesa di terminare gli studi in archeologia scrivo per diverse testate, malcelando sempre uno smodato amore per tutti i linguaggi ed i segni dell'essere umano