Editoriale
Il senso del 25 aprile
La ricorrenza è sempre la stessa, ma ogni anno cambia il contesto. Per questo viviamo un 25 aprile diverso.
di Alessandro Andrea Argeri
Quest’anno si preannuncia un 25 aprile particolare: sempre “teso”, ma più del solito. Ovviamente sarà all’insegna delle polemiche, quasi fosse una qualsiasi carnevalata televisiva anziché una delle più importanti ricorrenze del “vissuto comune” di tutti noi italiani. Per la prima volta nella storia della Repubblica governa un partito erede dell’MSI, il presidente del Senato non apprezza particolarmente i partigiani, il ministro dell’agricoltura parla di sostituzione etnica, poi altri clown se la prendono con la satira. Ma tranquilli per quest’ultimi: non dicono mica seriamente! È solo perché nessuno parla di loro. Per l’analisi delle dichiarazioni del governo vi invito a leggere “la tattica del front-man”, l’editoriale del numero del 17 aprile.
Da un po’ di anni invece in occasione del 25 aprile il mio pensiero va a mio nonno: nato nel lontano 1935, ha vissuto la Seconda guerra mondiale da bambino, l’ha vista con i suoi occhi, dal vivo, mica come me sul divano o a tavola davanti a un televisore in un servizio al telegiornale di massimo trenta secondi, con il lusso di poter dire, anche meschinamente, mentre cadono le bombe: “Questa guerra ha un po’ stancato, però!”.
“Essere partigiani” vuol dire “prendere parte”, schierarsi, parteggiare nella vita politica della propria comunità. Oggi circa il 40% degli elettori non si reca più alle urne. Il giorno delle elezioni invece mio nonno si alzava la mattina presto, prendeva la tessera elettorale, poi andava subito a votare, poiché sapeva quanto fosse importante, era consapevole di come la democrazia, la pace, la libertà non fossero per nulla diritti scontati, perché aveva visto quanto poco basta per vederseli negare. Dopotutto lo Stato era appena rinato, c’era voglia di ricostruire, bisognava prendersene cura anche nel proprio piccolo.
Quella del 25 aprile è la festa del giorno in cui gli italiani si sono “liberati” dalla dittatura, hanno riacquistato la libertà. Tutti i partiti si definiscono “democratici”, l’attuale governo è stato eletto democraticamente: piaccia o meno Giorgia Meloni non è il tecnico calato dall’alto per ragioni incomprensibili a noi comuni mortali. Ma allora perché la libertà non è un valore condiviso? Se guardiamo al passato, persino Umberto Bossi nel 1994 partecipò alla manifestazione del 25 Aprile contro la carica del “Cavaliere nero”, quel Silvio B. sul punto di portare al governo i post-fascisti di Fini. L’attuale partito di maggioranza non vuole screditare la base, tuttavia basterebbe il giusto riconoscimento a questa ricorrenza per mettere d’accordo tutti, per scacciare le critiche, per appacificare il dibattito mediatico. Politicamente sarebbe anche un colpo ai “cari amici della sinistra”, come “Giorgia” è solita nominare quell’insieme indefinito delle opposizioni.
Quelli come mio nonno erano altri cittadini, anche solo per il senso civico. Per ragioni anagrafiche nessuno è rimasto di quella generazione, mentre le nuove, tra cui la mia, non hanno vissuto il Novecento, dunque, purtroppo o per fortuna, non hanno piena coscienza degli orrori verificatisi, a meno di studiarli sui libri di storia, dove gli storici concordano nel definire il “ventennio” un “totalitarismo in cui l’individuo con ogni sua libertà era subordinato allo Stato”. Il fascismo, “il grande sogno degenerato in violenza”, è stato sconfitto, mentre il comunismo è morto nel ’91. Come si può quindi essere nostalgici di un qualcosa che non si è vissuto? Per lo stesso ragionamento non hanno senso nemmeno quei sondaggi in cui due terzi degli italiani dichiarano di essere antifascisti
Continuare a sciorinare i vecchi slogan, le stesse idee, persino l’esatto identico clima di guerra civile, come fossimo ancora al 1945, rischia di trasformare una festa dal significato importantissimo in una mascherata stile Lucca comics, quando invece dovremmo riflettere sullo stato di salute della nostra democrazia.
Il clima di guerra non ha giovato nemmeno alla nostra cultura. Durante il fascismo c’è stato uno stretto controllo della produzione letteraria, ma anche negli anni della Ricostruzione è stato eliminato quanto era stato prodotto durante il ventennio, senza invece provare a studiarlo con un minimo di metodo critico. Non è un caso se nelle scuole gli ultimi autori studiati siano Pirandello, D’annunzio, Montale, Ungaretti, ma nessuno appartenente alla seconda metà del Novecento. Vittorini è stato ostracizzato quando si è separato da Togliatti, Pasolini si sorvola con triste indifferenza, Calvino non si era sufficientemente politicizzato, quindi non va bene neanche lui. Ne è derivato un grave divario culturale nei confronti degli altri Paesi, i quali nel frattempo sono andati avanti, altra ragione per cui non ha senso provare a difendere la cultura italiana, pur con tutte le buone intenzioni del caso, se non si cerca di svilupparla.
Le vecchie idee non sono più applicabili semplicemente perché è cambiato il mondo. Prova inconfutabile è l’andamento delle stesse elezioni: nonostante un sistema politico basato sul bipolarismo, a ogni tornata elettorale compare una terza forza “alternativa”, la quale riesce sempre a strappare grosse quantità di voti. Per tutte queste ragioni, ha ancora senso parlare di destra e di sinistra? Qual è il significato di queste parole? Serve ancora alimentare le divisioni quando invece dovremmo essere tutti uniti, almeno per un giorno all’anno? Insomma, se anche quest’anno sarò in piazza il 25 aprile sarà grazie all’esempio di mio nonno, non perché un partito tiene alta la tradizione. Ci vediamo là!
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