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Migranti morti: mai un nome né un cognome

“Strage di migranti nel Mediterraneo, almeno settanta morti ” è il titolo di un articolo recentemente pubblicato su ” Il Manifesto”. Ci parla in una lingua generica dell’astratta morte di un numero imprecisato di esseri umani, di cui non vengono forniti né i nomi né i cognomi, periti nel tentativo di raggiungere l’Italia. Cosa si cela dietro questa deprecabile consuetudine di non ricordare l’umana individualità?

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“Strage di migranti nel Mediterraneo, almeno settanta morti ” è il titolo di un articolo recentemente pubblicato su ” Il Manifesto”. Ci parla in una lingua generica dell’astratta morte di un numero imprecisato di esseri umani, di cui non vengono forniti né i nomi né i cognomi, periti nel tentativo di raggiungere l’Italia. 

Questa mancanza di dati personali ci racconta in maniera nient’affatto implicita molte cose, prima fra tutte quale sia la narrazione di tali eventi che i media stanno facendo al paese: viene diffusa  una notizia che riguarda uomini evidentemente percepiti come diversi, al punto tale che non si ritiene necessario diffonderne le generalità. Se volessimo scendere un po’ più nel particolare, ci sarebbe da domandarsi come mai questi uomini, migranti appunto dall’Africa, siano percepiti dagli italiani come altro da sé e la risposta potrebbe essere che ciò dipende in primo luogo (solo in apparenza in primo luogo) dal colore della loro pelle, ma soprattutto (ed è questa la ragione vera) dal fatto che sono dei disgraziati, non valutati in quanto uomini, ma solo nella misura in cui siano portatori o meno di beni che al nostro sistema potrebbero fare comodo. Essendo il nostro un paese regolato da un sistema capitalistico, il bene che i migranti dovrebbero portare con sé per essere accolti come esseri umani dovrebbe essere il danaro e tutto ciò che in danaro possa essere trasformato. 

E poiché peraltro tali esseri umani sono dei disperati, non godono nemmeno delle tutele giuridiche, che magari ci sarebbero, ma che non vengono avvertite come cogenti dalle autorità preposte alla loro applicazione e che ci imporrebbero un diverso trattamento delle individualità di ognuno di essi. Mi pare tuttavia opportuno in questa circostanza non proseguire con un’analisi puntuale che proceda nella direzione tracciata e che mi porterebbe lontano dalla considerazione da cui sono partita, che mi sta più  a cuore invece approfondire. 

Cecilia Strada tempo fa sui social, dava notizia del fatto che tutti i migranti che stanno per perdere la vita in mare, urlano il proprio nome, affinché della loro morte vengano avvisati i familiari. 

Questa informazione ci parla in una lingua diversa da quella delle testate giornalistiche o dei telegiornali nazionali, o meglio, ci veicola un messaggio in una lingua diversa ed il messaggio veicolato di cui la Strada riferisce è che i migranti in punto di morte comunichino esattamente questo:”Io sono Tizio, avvisate la mia famiglia che sto morendo”. 

Questa comunicazione ci trascina hic et nunc nella realtà concreta di quel migrante, fatta di un nome, di una famiglia e di affetti che ad essa lo legano, una realtà pressoché identica a quella di ciascuno di noi. 

L’informazione fornita da Cecilia Strada ha dunque il grande merito di abbattere in un solo colpo tutte le barriere ed i pregiudizi che i media italiani creano o contribuiscono a creare e mantenere in accordo quasi sempre con il potere politico. Questa comunicazione ci restituisce la verità di quanto accade che, come tutte le verità è  unica e non può essere contrabbandata. 

La distanza che il potere politico vuole mantenere tra noi e quanti cercano di raggiungere il nostro paese sta tutta invece proprio nella genericità, in quella mancanza di concretezza che rende più facili le reazioni verso qualcuno di cui non conosciamo neppure il nome e cognome e che presumiamo perciò stesso essere diverso da noi. Se infatti i migranti fossero pensati come individui, avvicinati, conosciuti, prima o poi verrebbero dalla società civile assimilati, società civile che per fortuna stempera tutte le diversità attraverso lo strumento universale della conoscenza (homo sum, humani nihil a me alienum puto). 

Ora, di tutto ciò che sta accadendo nel nostro paese in risposta ai fenomeni migratori in atto, mi preme con profonda amarezza sottolineare che una soluzione mi pare ancora lontana da venire e che, di questa lontananza ci parla proprio il racconto dei media. 

In conclusione mi sia  consentita una digressione, che spero possa dimostrarsi meno digressio di quanto in apparenza non sembri. Poco prima della sua morte, lo scrittore israeliano Aharon Appelfeld, confessava di aver sempre provato un certo disagio tutte le volte in cui sentiva parlare di Shoa, proprio a causa della genericità e dell’astrattezza del termine e del suo significato. Per reagire a quel disagio, nei suoi libri aveva assunto l’impegno preciso di ricostruire sempre le vite degli uomini di cui scriveva e questo perché convinto del fatto che solo la storia individuale sia in grado di restituire autenticità alla storia collettiva e di parlarci la lingua della verità e che l’arte e la letteratura devono assumersi l’impegno di rivelarci le storie autentiche di ciascuno. Personalmente trovo che l’approccio di Appelfeld all’Olocausto sia il solo in grado di avvicinarci alla comprensione di quanto accadde durante gli sciagurati anni del secondo conflitto mondiale e che sia questa stessa la strada da percorrere per capire il problema delle ondate migratorie, che sembrano (ma solo in apparenza) travolgere gli equilibri italiani in questo confuso momento storico. 

  Rosamaria Fumarola. 

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Giornalista pubblicista, scrittrice, critica jazz, autrice e conduttrice radiofonica, giurisprudente (pentita), appassionata di storia, filosofia, letteratura e sociologia, in attesa di terminare gli studi in archeologia scrivo per diverse testate, malcelando sempre uno smodato amore per tutti i linguaggi ed i segni dell'essere umano