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17 Novembre 2025

Dialogo con Rossana Vaudo: tra scienza, emozioni, luci ed ombre

Dialogo con Rossana Vaudo che presenta il suo libro “Il secondo principio”

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Di Pierdomenico Corte Ruggiero

La presentazione del suo ultimo libro “Il secondo principio” Edizioni Clandestine ci ha fornito l’occasione di un viaggio tra emozioni ed immagini con Rossana Vaudo, che ringraziamo di cuore. Scopriamo allora Rossana: scrittrice, fotografa, docente e molto altro.

Iniziamo con una domanda, la classica domanda che introduce ogni intervista, ma che nel tuo caso non avrà sicuramente  risposte scontate: chi è Rossana Vaudo?

È sempre difficile definire se stessi. Sicuramente non lo farei utilizzando titoli o attribuzioni, poiché tutto ciò che cristallizza un’identità finisce col circoscrivere, e quindi limitare. Preferisco perciò descrivere il modo in cui mi percepisco: una persona in continua evoluzione, inquieta e imperfetta. Consapevole che la vita non è affatto scontata e che il tempo a disposizione è un dono prezioso che merita il miglior uso possibile. Una consapevolezza che alimenta il motore di continue sfide quotidiane, che mi spinge ad esplorare nuove frontiere, a conoscere, a comprendere, ed infine a condividere.

  • Nella bio del tuo profilo Instagram un bellissima frase di Goethe recita “Un uomo vede nel mondo ciò che egli porta nel cuore”. Tu cosa vedi nel mondo? E allargando lo sguardo, parafrasando le Ultime lettere di Jacopo Ortis, in che misura il nostro cuore è ancora capace di sentire in tempi così assuefatti al dolore?

Nel mondo, e nella natura in particolare, ricerco la bellezza, di fronte alla quale non finisco mai di stupirmi. Una bellezza che si manifesta anche nelle piccole cose: in una sfumatura del cielo, in un riflesso sull’asfalto, nelle venature di una foglia. Una bellezza che emoziona e mette pace.

È un pensiero che faccio spesso: se tutti si soffermassero ad ammirarla, chissà, forse nel mondo ci sarebbero meno ingiustizie, meno violenza, meno dolore. Che purtroppo invece esistono. Anzi, negli ultimi tempi, appaiono assolutamente preponderanti. Credo che sia un dovere di ciascuno di noi prenderne atto ed esprimere a voce alta il proprio dissenso. Invece l’atteggiamento più diffuso è di indifferenza, dovuto forse, come dici tu, ad una sorta di assuefazione. Ma, a questo proposito, vorrei provare ad andare un po’ oltre. Fino a poche decine di anni fa c’erano meno strumenti per capire se stessi, gli aspetti psicologici erano pressoché ignorati e la stessa figura dello psicologo veniva stigmatizzata. Eppure c’era un grande desiderio di conoscersi. Oggi che gli strumenti ci sono, che abbiamo psicologi perfino nelle scuole, e una vasta letteratura capace di rivolgersi anche ai non esperti del settore, manca spesso il coraggio di guardarsi dentro, di riconoscere il proprio dolore, di dare un nome alle proprie angosce. Penso che sia proprio questo il motivo di tanta indifferenza al dolore altrui: l’incapacità di riconoscere il proprio.

In una diversa chiave di lettura potrebbe trattarsi di una strategia di autotutela. Perché nel mondo in cui viviamo di dolore ce n’è troppo, e il rischio è di esserne sopraffatti.

Stiamo attraversando un’epoca complessa, in cui le certezze sul futuro sono sempre meno e si riaffacciano fantasmi di un passato che pensavamo di esserci lasciati alle spalle. Sta proprio qui, secondo me, il problema, nella disillusione, nella perdita di certezze, nell’improvviso vacillare della convinzione che sarebbe andato sempre tutto bene. È da questa riflessione che è scaturita l’idea che ho sviluppato nel mio ultimo romanzo.

  • Sei laureata in Geologia con specializzazione in valutazione di impatto ambientale. Sei quindi titolata a rispondere: sono sanabili le ferite che abbiamo inferto a Madre Natura e come?

Quando inizio a parlare della Terra ai miei studenti, cito sempre un passaggio del romanzo di Arundhati Roy, “Il dio delle piccole cose”, in cui i tempi geologici vengono trasformati in tempi umani, più semplici da comprendere e confrontare. L’autrice indiana descrive la Terra come una donna di quarantasei anni, nella cui vita l’uomo è apparso solo da venti minuti, e ciascuno di noi è soltanto uno sbrilluccichio nei suoi occhi.

L’efficacia di questo paragone sta nel darci contezza di quanto irrisoria sia la nostra presenza sul pianeta e, di conseguenza, di quanto incerta sia la sopravvivenza futura. Quello su cui bisognerebbe riflettere è che la specie umana è riuscita a prevalere grazie agli attuali equilibri. Se questi dovessero cambiare drasticamente, come sta già accadendo, perderemmo le nostre garanzie. La stessa tecnologia, a cui molti immaginano di potersi affidare, ha bisogno di risorse e di energie, i cui costi potrebbero un giorno non essere più sostenibili. Mentre dal punto di vista biologico siamo sempre più fragili.

Il punto di partenza per cercare un rimedio è, a mio avviso, assumere un atteggiamento di umiltà. Se invertire la rotta è pressoché impossibile, il nostro dovere è creare un argine, lavorare tutti insieme per contenere i danni. È necessario per questo cambiare punto di vista: non confondere il privilegio con un diritto, non concentrarci sul superfluo, quando sta per mancarci l’essenziale.

Credit foto Rossana Vaudo
  • Te lo chiedo nella tua veste di docente, i giovani vengono accusati di non voler imparare non sarà invece che noi “adulti” non sappiamo più parlare con le nuove generazioni?

La distanza tra i giovani e gli adulti sta crescendo a velocità vertiginosa, di pari passo con gli sviluppi della tecnologia.

Linguaggi e bisogni dei ragazzi si trasformano così rapidamente che una decodifica da parte degli adulti è sempre più impegnativa. Prendo ad esempio i programmi scolastici: non c’è in pratica differenza tra quelli attuali e quelli su cui io stessa ho studiato, o addirittura hanno studiato i miei genitori. È naturale perciò che a scuola si rilevi un progressivo calo di motivazione. Oggi il mondo è molto diverso da quello che era appena vent’anni fa, l’accesso ai contenuti è a portata di mano, per chiunque. Perciò i ragazzi non ci chiedono informazioni, ma un metodo per orientarsi tra le tante che ricevono, vogliono dei momenti di riflessione e di confronto piuttosto che la trasmissione di nozioni.

I giovani di oggi sono confusi, disorientati. I modelli virtuali a cui cercano di somigliare li rendono insicuri e fragili. Perciò il loro bisogno di dialogo è più forte che mai. Sta quindi a noi adulti sforzarci a cambiare passo, rallentare, lasciare un varco aperto e porci in ascolto. Saranno loro stessi a parlarci. In questo senso, grazie al mio lavoro, mi considero privilegiata.

  • Prima di parlare di te come scrittrice non possiamo non parlare di te come fotografa. Fotografare non è mai atto meccanico di rappresentazione di un luogo o di un momento. Le fotografie raccontano emozioni. Le tue fotografie sembrano voler raccogliere tutta la gamma delle emozioni umane: con  colori vividi e ombre marcate contemporaneamente. È così?

Esattamente. Fotografo da quando ero ragazzina, la mia prima reflex l’ho comprata con la borsa di studio della maturità. Ma se allora lo scatto perfetto era quello col cielo azzurro e limpido, oggi cerco i contrasti, la luce che filtra tra le nubi, esaltata dalle ombre. Cerco una rappresentazione dei miei stati d’animo. La fotografia quale veicolo di emozioni, come la scrittura.

Mi è capitato ad esempio di uscire con l’allerta meteo solo per fotografare il mare in tempesta. Non si è trattato di coraggio, né di incoscienza, ma di un bisogno: i tormenti e le angosce interiori si riconoscevano in quei paesaggi, e, attraverso ogni scatto, si proiettano all’esterno, per infine calmarsi.

La fotografia può essere un hobby, un lavoro, per alcuni addirittura un motivo di competizione. Per me la fotografia è uno strumento di guarigione, è terapeutica.

Credit foto Rossana Vaudo
  • Arriviamo a Rossana Vaudo scrittrice. Prima “Luna nuova” e ora il recentissimo “Il Secondo Principio”, che invitiamo a leggere. Entrambi legati al tormento improvviso, al dolore che stravolge, alla rinascita. “Il Secondo Principio”, con riferimento al secondo principio della termodinamica, ci mostra come siano inevitabili il caos e delle “perdite”  in ogni fase di cambiamento della nostra vita. Puoi illustrarci questo accostamento, apparentemente contrastante, dell’ approccio scientifico alle emozioni umane?

Tutto nel mondo sembra seguire delle regole o replicare degli schemi. Perfino nelle cose in apparenza più disordinate cambiando scala si riconosce un criterio di ordine. Nella forma di una conchiglia, nell’organizzazione delle cellule nel nostro corpo, nel volo degli uccelli, nei meandri di un fiume che sta per sfociare in mare. Un ordine che non può essere assoluto, altrimenti tutto sarebbe fermo, immobile nella sua perfezione. Il disordine si integra nell’ordine per scompigliarne i piani e consentire al mondo di trasformarsi ed evolversi. In questo gioco di energie ci siamo noi, affascinati dal caos ma fiduciosi nell’ordine, nella sua indiscussa capacità di sconfiggere il caos. Siamo tutti  intrigati da Joker ma tifiamo per Batman. Nella vita, però, non sempre c’è il lieto fine. Non siamo gli assoluti padroni del nostro destino, ma dobbiamo darci degli obiettivi, e lottare per realizzarli. Perché anche una sconfitta totale dell’ordine porterebbe alla morte, quella che i fisici chiamano morte termodinamica di un sistema, quando non c’è più energia per realizzare alcun processo.

Credit foto Rossana Vaudo
  • Abbiamo sempre più paura del dolore fisico, è in aumento la antibiotico resistenza per l’uso eccessivo di questo tipo di farmaci, e del dolore dell’animo, aumenta l’uso di antidepressivi, ma come ci hai appena illustrato il dolore è una fase inevitabile nel nostro cammino. Premesso che ciascuno ha la sua ricetta ma come possiamo far diventare il dolore uno stimolo per rialzarci?

A provocare il dolore è un evento inatteso, indesiderato. Soffriamo quando accade qualcosa che non ci aspettiamo, o qualcosa che non siamo pronti ad affrontare. Ci chiediamo perché proprio a noi. Ci diamo colpe. Cerchiamo colpevoli. Stiamo male. Ma in realtà stiamo peccando di presunzione. Abbiamo immaginato per noi stessi uno scenario meraviglioso e lo abbiamo ritenuto reale; ci abbiamo creduto anche quando le evidenze ci mostravano il contrario. Ancora una volta la disillusione, il crollo delle certezze. Quando il dolore irrompe per caso nelle nostre vite e stravolge tutti i nostri piani, ci mostra spietatamente quanto fossero effimeri. Può trattarsi di un’influenza che rovina una vacanza, di un tradimento che distrugge una relazione, di una grave malattia, di un abbandono, di un lutto. Tutti eventi di cui conosciamo bene l’esistenza ma che abbiamo preferito credere che non ci avrebbero mai riguardato, o per lo meno che non ci avrebbero riguardato così presto e così all’improvviso.

E allora abbiamo due strade: continuare a rimpiangere ciò che avremmo voluto e non è stato, continuando a soffrire, o guardare in una direzione diversa accettando di trovarsi su un nuovo punto di partenza. E cogliere l’inatteso come opportunità di trasformazione.

  • Non è uguale per tutti quindi per te amare cosa significa? Cosa comporta?

L’amore è il più nobile dei sentimenti. Diverso dall’innamoramento, però. Ci si innamora per caso, si ama invece per scelta. Amare richiede energia, impegno, dedizione. Amare è un progetto. Che per essere realizzato ha bisogno di un presupposto: amare se stessi.

Siamo stati a lungo condizionati dall’idea che l’amore più grande si manifestasse nel sacrificio di sé. Un messaggio strumentale, che ha avuto tante conseguenze negative. Generazioni di donne disposte ad annientare la propria identità, ad accettare soprusi e umiliazioni, in nome dell’amore per un uomo e per la famiglia. Così come giovani vite, pronte ad immolarsi in nome di slogan preconfezionati o ideali indottrinati da abili manipolatori.

Se ci pensiamo, invece, il significato autentico dell’amore sta proprio nelle parole di Gesù, “ama il prossimo tuo come te stesso”. Allo stesso modo, non di più. E lo dico da atea.

Imparare a leggere nel proprio cuore, ascoltarsi, sapersi perdonare, prendersi cura di sé, dedicarsi del tempo, è necessario per essere capaci di fare lo stesso con la persona che scegliamo di avere accanto. Questo è il significato che oggi do all’amore, l’unico possibile.

  • Ci ritroviamo a parlare spesso, troppo spesso, di femminicidio e di violenza sulle donne. Tra le varie cause si parla di “amore malato”. Ma ha senso associare la parola malato ad un sentimento come l’amore?

Quando si tratta di violenza eliminerei entrambi i termini, ma partiamo dal primo. L’amore si basa sul rispetto, sull’aver cura, sull’empatia. Significa volere il bene dell’altra persona, anche quando sceglie di chiudere la relazione. Il possesso, il controllo, l’attaccamento morboso vanno chiamati con il loro nome, non hanno nulla a che vedere con l’amore. Guardo con diffidenza chi, dopo essere stato lasciato, precipita nel vuoto di un baratro. Il senso alla nostra esistenza dobbiamo darlo noi, non può essere responsabilità di un’altra persona.

Quando la vita senza l’altro perde di significato e quando alla vita stessa dell’altro non si dà più valore, allora inizierei a parlare di “malato”, ma in quanto sostantivo. Ricercare la causa dei femminicidi nel retaggio di una cultura patriarcale è a mio avviso restrittivo, intercetta solo una delle cause, e nemmeno quella prevalente. Che andrei invece a ricercare su due fronti: quello dell’abuso di sostanze e quello della malattia psichiatrica. Il consumo di ogni tipo di sostanza stupefacente è in continua crescita, lo percepiamo chiaramente all’interno delle scuole, eppure sembra che non ci sia volontà di contenerlo.  A differenza di quanto accadde negli anni Ottanta e Novanta, quando martellanti campagne di informazione limitarono l’abuso di eroina, oggi tra i social, nei film o in un certo tipo di musica, la droga va di moda e sembra quasi essere legittimata. Nessun cenno a quali effetti provoca, nel breve e nel lungo periodo, a livello neurologico. Psicosi, fobie, ossessioni, eventi dissociativi. Tutti in aumento, anche tra gli adolescenti. Lo vediamo noi insegnanti. Anche a seguito di uso di cannabis. E poi c’è l’alcol. Troppo anche quello e troppo presto. Ragazzini in coma etilico nel fine settimana è quasi la normalità.

A fronte dell’importanza esagerata che si attribuisce all’aspetto fisico, non c’è altrettanta attenzione  verso la mente. Depressione e ansia in crescita esponenziale, per non parlare dei disturbi più gravi.

Quali dinamiche si innescano in una mente disturbata in una relazione affettiva? C’è un nesso tra la dipendenza da sostanze e quella da una persona? Sono queste le domande che la nostra società si dovrebbe porre. Ed è questo che dovrebbe essere insegnato alle donne, anzi a chiunque: l’amore non può risolvere la malattia della mente. Nessun sacrificio può servire. Serve allontanarsi, finché si è in tempo.

  1. I molti mali dei nostri giorni sono legati alla solitudine. Come disse Charlie Chaplin nel Discorso all’Umanità nel film “Il Grande Dittatore”: “Abbiamo i mezzi per spaziare, ma ci siamo chiusi in noi stessi”. Come abbiamo perso la capacità di comunicare e di ascoltare nonostante le tante tecnologie a disposizione?

Credo che sia venuta meno l’autenticità della comunicazione. L’evoluzione dei social spinge a presentare un’immagine di sé artefatta. A confrontarsi con modelli che ci fanno sentire inadeguati. Le amicizie virtuali, che hanno spesso sostituito quelle reali, si gestiscono con meno impegno, ed è più facile mentire, mostrarsi per quello che non si è.

La solitudine può essere un antidoto a questa ipocrisia, non la vedrei solo in modo negativo. Forse è un passaggio obbligato se vogliamo che qualcosa cambi. La solitudine partorisce idee, spunti di riflessione, può costruire nuove visioni. E ne abbiamo bisogno.

  1. Sei cresciuta in una città di mare, Gaeta, vivi in una città di mare, Termoli. Cosa rappresenta per te il mare?

Delle scelte che ho fatto nella mia vita, in maniera più o meno consapevole, il mare rappresenta il filo conduttore, una presenza necessaria e insostituibile. Come quando, al prezzo di allontanarmi dalle mie amiche più care e dai miei compagni di classe, ho deciso di iscrivermi alla “Federico II” di Napoli invece che a Roma. Mi sono lasciata guidare dalla presenza del mare, l’ho capito solo più tardi.

Per me il mare è amico, è confidente, è conforto. Quando ho bisogno lo incontro in un mio posto speciale. A Gaeta era il belvedere sulla salita per Fontania. Ci arrivavo in bicicletta e stavo lì, affacciata, dimenticandomi del tempo e piano piano anche della mia tristezza, a fissare le onde infrangersi sulle rocce scabre della Nave di Serapo.

Credit foto Rossana Vaudo
  1. Gaeta è la città che la leggenda accosta ad Enea. Che sulle coste del Lazio conclude il suo lungo cammino. Quali sono invece le tue prossime tappe come narratrice di emozioni?

Azzardo un po’ in questa risposta e utilizzo il mito di Enea come metafora. Sono fuggita dalla mia città in fiamme quando ho capito che non c’era ormai più nulla per cui lottare e, attraverso la scrittura, ho intrapreso un viaggio verso una destinazione ignota. L’approdo è stata la presentazione del mio primo romanzo, Luna nuova. Quel giorno ho seppellito definitivamente il mio passato e ho compreso che ero nella direzione giusta. Dovevo andare avanti. E così è stato, con la benevolenza degli dei, oserei dire. Perché un riscontro così positivo era solo un sogno. So che devo continuare a scrivere, ho già in mente il titolo e il contenuto del prossimo romanzo, ma per ora vivo giorno per giorno quanto di meraviglioso ed inaspettato questo incredibile viaggio mi sta offrendo.

Credit foto Rossana Vaudo

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