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13 Ottobre 2025

​Il dirottamento dell’Achille Lauro: La notte di Sigonella in cui l’Italia disse no

Cronaca di un dirottamento che cambiò l’Italia

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Di Pierdomenico Corte Ruggiero

​Il mare, quel giorno, era calmo.

​Il Mediterraneo, disteso come una lastra d’acciaio azzurra, rifletteva la luce di ottobre. Sulla prua della Achille Lauro, una delle ultime navi da crociera di lusso italiane, turisti da ogni parte del mondo si mescolavano tra il bar del ponte e la musica che arrivava dalla sala da ballo. Era il 7 ottobre 1985. Niente faceva presagire che, da lì a poche ore, quella crociera sarebbe diventata un dramma diplomatico e politico destinato a segnare un’epoca.

​Quattro uomini si mossero con calma.

​Erano palestinesi, membri del Fronte per la Liberazione della Palestina (FLP). Dovevano compiere un attentato in Israele, ma il piano era fallito. Quando furono scoperti da un marinaio, non ebbero scelta: tirarono fuori le armi, presero il controllo della nave e ne proclamarono il dirottamento.

​Sul ponte scoppiarono le urla, la paura, la corsa dei passeggeri verso le cabine. Le luci si fecero fredde, i corridoi lunghi e silenziosi come cunicoli. “Non volevamo colpire civili”, avrebbero detto poi. Ma era troppo tardi: la Achille Lauro era diventata una prigione galleggiante.

​A bordo, 400 vite sospese tra la costa egiziana e la notte.

​Dalla cabina radio arrivarono le richieste: “Vogliamo la liberazione di cinquanta prigionieri palestinesi in Israele.”

​A Roma, il governo si mobilitò. Craxi riunì l’unità di crisi, Andreotti cercò i contatti con l’Egitto. In quelle ore cruciali, l’Italia camminava sul filo sottile tra la diplomazia e la tragedia.

Leon Klinghoffer aveva 69 anni, era americano, ebreo, invalido.

​Aveva deciso di regalare a sua moglie Marilyn un viaggio nel Mediterraneo, un sogno di mezza età. Quando i dirottatori presero la nave, cercò di mantenere la calma. Ma la sua sola esistenza — e forse ciò che rappresentava — divenne un bersaglio.

​L’8 ottobre, uno dei sequestratori gli sparò. Il corpo di Klinghoffer fu gettato in mare, ancora seduto sulla sedia a rotelle. Un gesto di brutalità inaudita che travolse ogni equilibrio possibile.

​Da quel momento, il dirottamento della Achille Lauro non fu più solo una questione italiana. Diventò un caso mondiale. Washington pretese giustizia. Reagan parlò di “barbarie”. L’opinione pubblica americana chiese vendetta.

​Dopo giorni di trattative serrate, il presidente egiziano Hosni Mubarak riuscì a ottenere la resa dei terroristi. In cambio, fu promesso loro un volo sicuro verso la Tunisia.

​La Achille Lauro tornò libera, i passeggeri scesero a terra stremati.

​Sembrava finita.

​Ma un Boeing 737 egiziano con a bordo i quattro dirottatori e un misterioso uomo — Abu Abbas, diplomatico palestinese e, secondo i servizi americani, la mente dell’operazione — non arrivò mai a Tunisi.

​La Casa Bianca aveva deciso di agire.

​“Take them,” ordinò Reagan. Prendeteli.

​Quattro caccia F-14 della Marina statunitense decollarono dalla portaerei Saratoga nel Mediterraneo. Individuarono il Boeing e lo costrinsero ad atterrare. Ma dove? La scelta cadde su Sigonella, base NATO in Sicilia.

​L’aereo toccò terra nella notte tra il 10 e l’11 ottobre. L’aria era densa, l’asfalto bagnato di rugiada. Intorno, i riflettori tagliavano l’oscurità. Gli americani, della Delta Force, volevano salire sull’aereo e portare via i terroristi. Gli italiani, carabinieri e avieri della VAM (Vigilanza Aeronautica Militare), di guardia alla pista, li fermarono.

​“Questo è territorio italiano,” dissero i militari accorsi con i blindati in rinforzo.

​I soldati americani non mollavano.

​Si fronteggiarono in silenzio, con le armi puntate.

​A Roma, Craxi riceveva telefonate pressanti da Washington. George Shultz, il segretario di Stato americano, pretendeva la consegna immediata dei terroristi. Craxi rifiutò: il diritto internazionale era chiaro, Sigonella era suolo italiano.

​Per ore, carabinieri, militari dell’aeronautica e reparti americani restarono fermi, in un equilibrio irreale. Un comandante italiano raccontò anni dopo: “Bastava un colpo, un gesto, e sarebbe scoppiato un disastro.”

​Alla fine, la ragione e la diplomazia prevalsero. I dirottatori furono arrestati dai magistrati italiani. Abu Abbas, invece, riuscì a lasciare il Paese grazie a un passaporto diplomatico, imbarcandosi su un volo per la Jugoslavia.

​Gli Stati Uniti non perdonarono. Reagan non lo disse mai apertamente, ma l’Italia era finita nel mirino.

​Per molti, Sigonella fu il momento in cui l’Italia smise di essere solo “un alleato minore” e difese con orgoglio la propria sovranità.

Bettino Craxi ne uscì con l’immagine di un leader fermo e indipendente. Ma quella notte aprì anche una crepa profonda: tra Italia e Stati Uniti, tra la fedeltà atlantica e il desiderio di autonomia.

​Fu una notte in cui la politica si fece carne, paura e orgoglio.

​Sul piazzale della base, tra le ombre dei militari e il ronzio dei generatori, si decise — forse per l’ultima volta — che l’Italia avrebbe scelto da sola.

​Il processo di Genova, nel 1986, condannò i quattro dirottatori all’ergastolo.

​La Achille Lauro tornò a navigare, ma la sua sorte era segnata: nel 1994, un incendio al largo della Somalia la inghiottì per sempre.

​Eppure, il suo nome rimane inciso nella memoria come una cicatrice.

​La Achille Lauro fu più di un dirottamento. Fu un punto di svolta nella coscienza nazionale, un momento in cui l’Italia, per qualche ora, fu al centro del mondo — fragile, indecisa, ma capace di dire no.

​A distanza di quarant’anni abbiamo, invece, un’Italia, quella delle istituzioni, che non sembra più capace di dire no. Con i potenti. Perché con i deboli ci riesce benissimo.

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