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La società liquida di Zygmunt Bauman

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di MARIAPIA METALLO

 

Una società può essere definita ‘liquido-moderna’ se le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure…

 

In una società liquido-moderna gli individui non possono concretizzare i propri risultati in beni duraturi: in un attimo, infatti, le attività si traducono in passività e le capacità in incapacità… La vita liquida è una vita precaria vissuta in condizioni di continua incertezza… La vita nella società liquido-moderna non può mai fermarsi. Deve modernizzarsi o perire”.


Siamo tutti o quasi utenti di un qualche social network, implicati in una stessa condizione non ammessa e magari neanche pensata di unhappiness o di sospensione di stato, talvolta prossima al vuoto. Nella liquidità, che è condizione di precarietà dentro e fuori, e dunque di fragilità e senso di inadeguatezza, in questa liquidità prossima alla deflagrazione di ogni senso (Gramsci parlava di “interregno” ) ultimo “traguardo” è il trasferimento dell’umanità sull’arca virtuale di Facebook, mezzo “liquido” per eccellenza della condizione post-moderna. Il fenomeno è recente ed è troppo presto per dire se il mezzo ha trasformato una volta per tutte la storia della cultura, o siamo in una fase di esplosione che poi in parte rientrerà negli argini e troverà un suo equilibrio. Il movente fondamentale del grande esodo è la paura, insita in ognuna di noi, accresciuta dal mercato e dal nostro status, ormai permanente, di consumatori. Perché ci siamo trasferiti in massa sulle bacheche virtuali? Il miraggio di emergere dalle tenebre, sfuggire alla morte, all’anonimato, alla piaga dei tempi liquidi che è l’esclusione, attrae persone di ogni condizione, cultura, età. L’esigenza di trovarsi nella comunità – virtuale – è forte. Bauman cita un pubblicitario, George Rose, per chiarire la questione: “Internet riflette la nostra umanità, mostra ciò che sta dentro di noi. La necessità d’essere presenti sul mercato del prestigio, del successo, del riconoscimento degli altri nella condizione di fragilità che contraddistingue la vita liquida moderna”. Certo l’effetto speciale c’è: il meccanismo avvicina in apparenza chi è lontano e allontana chi è vicino. E perché? Bauman spiega che la rete è un succedaneo, un tappabuchi che riempie il vuoto lasciato dalle comunità che stanno scomparendo. È facile e indolore il sistema: in un minuto si crea, la rete, in un minuto la si disfa; con un colpo di mouse si cancella un amico, senza imbarazzo o dispiacere o, peggio, sensi di colpa. Mentre la comunità pur essendo affidabile è vincolante. In rete aumenta il contrasto tra superficialità e profondità. E poi c’è la faccenda dei numeri. O è vetrina, o è mania di onnipotenza esibita, o entrambe le cose. La rete realizza un valore primario in questa società: levare di mezzo tutti i fastidi associati ai rapporti umani reali. Bauman cita anche lo psichiatra e psicoanalista Serge Tisseron, secondo il quale i rapporti considerati “significativi” sono passati dall´intimité all´extimité, cioè dall´intimità a ciò che egli chiama con neologismo “estimità”. Non conta aprirsi, ma mostrarsi. “Siamo tutti consumatori, si sa e sul mercato di Facebook ci stiamo autopromuovendo, ci vendiamo in maniera remunerativa. Scomparsa la vergogna, liquidato il senso del pudore e declassato da comune a fuori del comune perciò irregolare e sinistro, non resta che la “cultura del confessionale” attraverso il microfono, la webcam, la tastiera. E la confessione non è più momento d’intimità ma d’estimità. Bauman, assertore instancabile dell’idea che “fare sociologia ha senso solo nella misura in cui aiuta l’umanità nel corso della vita”, non dà soluzioni e preferisce differire il giudizio al poi: quando la corte, superato l’interregno, avrà acquisito prove sufficienti. Invita solo a scegliere “sempre pensando all’impatto che nasce dall’accettazione di questi schemi che regolano la nostra vita, la nostra capacità di aiutare gli altri, vivere insieme in maniera umana, dignitosa”. Restano due valori imprescindibili per una vita, neanche felice, vivibile: la sicurezza e la libertà. “La sicurezza senza libertà è una schiavitù, la libertà senza sicurezza vuol dire vivere nel caos completo. Ogni cultura cerca sempre un compromesso tra sicurezza e libertà, anche in quest’epoca non abbiamo trovato il giusto mezzo, ma continueremo sempre a provare”.

Informatico, sindacalista, appassionato di politica e sportivo