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Dante: Purgatorio, Canto III
di MARIAPIA METALLO
Purgatorio, Canto III
«Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice;
ond’io ti priego che, quando tu riedi,
vadi a mia bella figlia, genitrice
de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
e dichi ‘l vero a lei, s’altro si dice.
Poscia ch’io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.
Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.
Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia,
l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.
Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo ‘l Verde,
dov’e’ le trasmutò a lume spento.
Per lor maladizion sì non si perde,
che non possa tornar, l’etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.
Vero è che quale in contumacia more
di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta,
star li convien da questa ripa in fore,
per ognun tempo ch’elli è stato, trenta,
in sua presunzion, se tal decreto
più corto per buon prieghi non diventa.
Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m’hai visto, e anco esto divieto;
ché qui per quei di là molto s’avanza».
In questo canto Dante riesce ad andare oltre le normali idee del suo tempo per affermare dei principi eterni: nonostante Manfredi fosse stato scomunicato, avesse combattuto con il Papa e avesse perso, Dante lo mette comunque nel Purgatorio per affermare la grandezza della misericordia di Dio, soprattutto in rapporto alla piccolezza delle miserie e delle vendette umane. In un tempo come quello di Dante dire che la Chiesa non poteva influire in maniera decisiva sulla sorte dell’anime di un uomo era rivoluzionario: Bonifacio VIII aveva creato l’anno santo apposta per ricevere offerte vendendo in cambio le indulgenze, chi poteva pagava la chiesa per avere un biglietto per il paradiso e uno sconto di pena nel purgatorio.
Non tutti sanno della sorte toccata ad Elena Ducas, moglie di Manfredi di Svevia. Ella fu imprigionata nel castello di Lagopesole ed ebbe vita breve, morì senza compiere neppure 30 anni, perché in seguito alla morte del marito, venne imprigionata da Carlo d’Angiò e condotta qui, dove passò gli ultimi momenti della sua vita, nella totale tristezza, lontana anche dai suoi figli, imprigionati a Castel del Monte. Avvolta nella totale tristezza e nel dolore si lasciò morire d’inedia. La beffa per questa povera donna è che questa rocca è la stessa in cui ebbe vita felice con la sua famiglia, perché qui passò i più bei momenti della sua esistenza. Esiste una leggenda che narra che lo spirito della povera Elena, chiamata anche “Elena degli angeli”, non abbia mai abbandonato questo luogo, perché in eterna attesa del ritorno dell’amato marito e dei suoi figli. Si dice che al tramonto si possa a volte intravvedere il fantasma della bellissima Elena vestita di bianco, nascosta dietro le tende di una della finestre e con in mano una lanterna, a guardare singhiozzando con lamenti disperati l’orizzonte lontano. Si dice che lo stesso Manfredi avvolto da un manto verde cavalchi uno splendido cavallo bianco la campagna circostante alla ricerca a sua volta dell’amata. Ma nessuno dei due riesce a scorgere l’altro e si perdono in un’eterna ricerca, destinati anche nell’aldilà a non incontrarsi mai.