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Le “Vite parallele” di Plutarco, fonte inesauribile di storia antica
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di MARIAPIA METALLO
Le vite parallele di Plutarco sono una fonte inesauribile di storia antica.Storia esposta con grande perizia letteraria e basata su un’intima e partecipata conoscenza del mondo ellenico e romano, del quale lo scrittore è un insigne rappresentante e un convinto sostenitore. La storia di Plutarco è storia aneddotica, nella quale i fatti minuti sono il microcosmo da cui si può “spiare” il macrocosmo, in base ad un rapporto analogico illuminato ermeneuticamente dallo scrittore: «Io non scrivo un’opera di storia, ma delle vite; ora, noi ritroviamo una manifestazione delle virtù e dei vizi degli uomini non soltanto nelle loro azioni più appariscenti: spesso un breve fatto, una frase, uno scherzo, rivelano il carattere di un individuo più di quanto non facciano battaglie ove caddero diecimila morti». Ovviamente si è molto discusso sulla plausibilità o fondatezza storica degli accoppiamenti proposti da Plutarco, e, in effetti, alcuni appaiono discutibili o forzati, però è indubbio che almeno in alcuni altri l’opzione plutarchiana appare illuminante: Alessandro e Cesare hanno davvero cambiato il mondo, Nicia e Crasso sono davvero i due grandi sconfitti, Demetrio Poliorcete e Marco Antonio sono davvero i trastulli della Fortuna e della passione erotica, Dione siracusano e Bruto fanno davvero della filosofia una pratica di vita, e, infine, Filopemene e Tito Flaminino sono davvero i tedofori di una certa idea dell’Ellade, in relazione alla potenza romana. Tutta l’opera è condotta all’insegna di un pacato razionalismo, sorretto dalla profonda condivisione dell’idea del giusto mezzo e del «mai troppo», dalla predilezione per un potere oligarchico “temperato”, lontano sia dalla demagogia cui è soggetta la democrazia, sia dalla tirannide (e si compiace di ricordare un arguto motto di Solone: «quello del tiranno è un gran bel posticino, ma manca di strada per discenderne»), e da una religiosità sobria ma non lassa. I valori plutarchiani sono l’ordine, la giustizia, la magnanimità, la laboriosità, la fortezza, la temperanza, l’equilibrio nell’accogliere la fortuna o la disfatta, ecc. ossia specificatamente i valori classici del logos opposto al caos. Nessun eroe, per quanto grande e virtuoso, è esente da vizi. D’ogni eroe, statista, stratega si narrano le grandi virtù, le imprese, le fortune e le disfatte, ma ad ognuno è assegnata anche una serie di vizi innati o emersi dall’evolversi delle loro esistenze. Per Plutarco diventa quasi un punto d’orgoglio o d’onestà intellettuale non mandare nessuno esente da pecche: Aristide, il grande politico e generale ateniese, non venne mai meno alla sua integrità morale, ma non seppe “scrollarsi di dosso la povertà”: anche la temperanza, la sobrietà, l’onestà stessa, praticate con cieca ostinazione, diventano un delitto contro il “giusto mezzo”. Plutarco esclude dal suo orizzonte speculativo e valoriale i sentimenti e la spiritualità individuale: l’uomo di Plutarco è l’uomo politico, è l’uomo della polis, è l’uomo che si giudica dagli effetti prodotti sulla comunità, è l’uomo dell’azione, non dell’intenzione. L’atteggiamento basilare di Plutarco riguardo agli eroi di cui si occupa è magnanimo ed equanime. Non infierisce quando si tratta di denunciarne i vizi e non si esalta quando si tratta di lodarne le virtù. Anche nella Vita di Giulio Cesare mantiene lo stesso atteggiamento moderatamente distaccato e politicamente equidistante, ma è curioso osservare che, fatta salva la parte dell’opera che lo riguarda direttamente, ogni volta che Plutarco si trova a coinvolgere Giulio Cesare raccontando altre vite assume un atteggiamento polemico e tutt’altro che accomodante. Tanto che si erge a difensore della memoria di Catone l’Uticense attaccato duramente dallo stesso Cesare in un suo scritto: secondo Cesare, Catone era così gretto e taccagno che dopo aver reso gli onori funebri al fratello rivestendolo d’oro e porpora, fece setacciare la cenere del rogo per recuperarne il prezioso metallo, e Plutarco insorge scrivendo: «fino a questo punto lo scrittore [Cesare] confidò che nessuno avrebbe controllato e analizzato ciò che usciva dalla sua penna, come ciò che eseguiva con la sua spada».
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