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L’aborto: un crimine o un diritto?
di LAURA FANO
Durante il fascismo in Italia l’aborto era considerato, con il Codice Rocco, un reato ‘contro l’integrità e la sanità della stirpe’.
Il controllo dell’utero a quei tempi era quindi strettamente legato al proliferare della Nazione, perché le donne, a cominciare da Rachele Mussolini, avevano l’obbligo, non solo morale ma anche fisico, di contribuire alla causa suprema dello Stato fascista.
I soggetti coinvolti in un’Ivg rischiavano così di beccarsi dai sei ai dodici anni di reclusione, in base al grado di responsabilità. E le donne, per paura di trovarsi di fronte a condanne penali, ricorrevano all’aborto clandestino, con conseguenze spesso fatali.
Nonostante la caduta del Fascismo e l’avvento della democrazia, l’aborto è rimasto un reato fino 1978.
Alla fine degli anni Sessanta, il tema dell’aborto in Italia faceva ancora parte di quella serie di argomenti che comunemente sono ritenuti innominabili e le prime testimonianze pubbliche di donne che vi avevano fatto ricorso, apparse su libri e giornali verso la metà del decennio, fecero l’effetto di un vero e proprio choc culturale.
A dare una svolta fu una sentenza del 1975 con cui la Corte Costituzionale abrogava l’art. del codice penale fascista che condannava l’aborto, affermando: «Non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare».
Dopo anni di battaglie, il 22 maggio del 1978 con la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza, nota come Legge 194, l’aborto cessò d’essere un reato consumato negli scantinati o in ambulatori improvvisati dei macellai di turno. La 194 infrangeva un tabù: decriminalizzava e disciplinava l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza, va un diritto fondamentale prima negato. La sua approvazione rappresentava una conquista, una vittoria, l’uscita da una situazione di barbarie. Una legge di civiltà e di diritti come fu ribadito dalle forze politiche e sociali che la promossero. Una norma omicida e contro natura, per i suoi detrattori.
La norma, aspramente osteggiata e combattuta dai cattolici, fu poi confermata da un referendum il 17 maggio del 1981, con il 68% dei voti contrari all’abrogazione. Anche in questa occasione il paese fu lacerato e spaccato per mesi da una campagna referendaria furente dai toni apocalittici.
E ancora oggi, a distanza di 40 anni, mentre gli aborti drasticamente diminuiscono (ed è questo il risultato più straordinario della legge), gli attacchi continuano e c’è ancora chi boccia, come in Puglia, la piena approvazione della legge, e l’obiezione di coscienza è il vero grimaldello per sabotarla.
Non dimentichiamo, infatti, che nel nostro Paese, falso perbenista e cattolico, dove la Chiesa che pullula di pedofili ha una forte ingerenza, la media nazionale degli obiettori di coscienza è del 70% e arriva al 90% soprattutto nelle regioni del Sud.
Sono ginecologi, anestesisti, ma anche infermieri, ostetriche, ferristi e tutte le figure sanitarie, fino all’operatore che deve accompagnare la donna in camera operatoria. Interi complessi ospedalieri non sono in grado di offrire il servizio previsto dalla legge. In queste circostanze le donne si ritrovano spesso in situazioni limite in cui vengono abbandonate dal personale medico, che invocando l’obiezione di coscienza, si rifiuta di espletare le sue funzioni anche quando queste dovrebbero essere garantite dalla legge, salvo poi- in molti casi- praticare aborti clandestini in strutture private compiacenti e a pagamento.
La legge 194 ha salvato le donne dalle morti per aborto clandestino e le ha salvate dalle condanne per il reato “contro l’integrità e la sanità della stirpe” del codice Rocco (che, nel rispetto coerente della concezione patriarcale dei ruoli tra uomini e donne all’interno della famiglia, diminuiva le stesse condanne dalla metà ai due terzi se l’aborto, su donna consenziente o no, veniva procurato per “causa di onore”). Ma tutto questo evidentemente non parla alle coscienze di quelli che oggi obiettano.
Anni fa nella Repubblica di El Salvador una ragazza di 19 anni stuprata, decise di abortire e per questo fu condannata a 30 anni di galera. Poi è stata graziata e dopo 15 anni è tornata una persona libera. Secondo le stime di organizzazioni femministe de la repubblica di El Salvador, Paese in cui vige questa legge, circa una trentina di donne si trovano attualmente in carcere, scontando pene dai 6 ai 35 anni, solo per aver scelto di abortire.
La morte di Savita Halappanavar, dentista di origine indiana, uccisa da una setticemia dopo un aborto spontaneo prolungato all’ospedale di Galway nell’ottobre 2012, ha però smosso le coscienze e ha sconvolto l’opinione pubblica irlandese. Sarebbe bastato un intervento dei medici a interrompere la gravidanza per salvarle la vita, ma la si è lasciata morire di parto per rispettare una legge assurda.
Episodi come questo non fanno che sottolineare come, a 40 anni dall’approvazione della legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, il diritto delle donne di decidere del proprio corpo non sia affatto scontato e, viceversa, sia ancora tutto da costruire e da difendere.
Abbiamo sconfitto malattie, siamo arrivati a esplorare la luna, abbiamo creato la vita in laboratorio e una cornea umana con una stampante 3D, ma quando si parla di equilibri sociali il discorso cambia e si ritorna puntualmente alla cacciata dall’Eden.
Il corpo delle donne è da sempre terreno di disputa e di controllo, pare infatti che l’utero sia l’unica parte del corpo da non considerare organo privato, ma spazio pubblico in cui le donne perdono la propria autonomia e libertà di scelta. Quasi tutti gli aspetti ideologici delle nostre società sono asserviti a questo scopo: dalle scelte pubblicitarie alla sanità pubblica passando per la parziale attuazione di leggi che le obbligano a portare avanti gravidanze indesiderate fino ad arrivare alle sanzioni ingiustificate.
Si dimentica che quella mela l’anno mangiata in due e le eguali colpe hanno portato alla cacciata dal Paradiso Terrestre. Ma è Eva che tutt’ora porta il peso della disobbedienza.
Secondo i recenti dati dell’ Organizzazione Mondiale della Sanità su 208 milioni di gravidanze annue almeno il 41% non è desiderata e finisce sovente in un aborto, troppo spesso clandestino; altre volte, il frutto di questi “incidenti” finisce direttamente nello scarico di un cesso di un ipermercato, dentro un cassonetto o sul ciglio di una strada. perché la legge non tutela, per vergogna, per ipocrisia diffusa: perché la legge non tutela, per vergogna, per ipocrisia diffusa.
I governi dovrebbero rispettare il diritto umano di una donna a prendere decisioni riguardanti la sua riproduzione e la sua vita. Una donna che decide di abortire – come hanno fatto ogni anno 46 milioni di donne – deve avere accesso alle strutture e alle cure che le consentiranno di interrompere la gravidanza in modo sicuro.
Molti governi e molti politici, invece, ancora oggi perseguitano e puniscono le donne che decidono di abortire le penalizzano nei loro diritti.
È ampiamente riconosciuto che nei paesi in cui l’aborto è limitato dalla legge, le donne cercano
aborti clandestini, spesso in condizioni mediche non sicure e quindi minacciose. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità gli aborti non sicuri sono stati responsabili della morte di circa 47.000 persone donne negli scorsi anni. Pertanto, le leggi che costringono le donne a ricorrere a procedure non sicure violano il diritto alla vita delle donne.
La legge internazionale garantisce, inoltre, alle donne il diritto a “il più alto livello raggiungibile di salute fisica e mentale. Nel 2000, il Comitato sui diritti economici, sociali e culturali ha riconosciuto che il diritto alla salute include “il diritto a controllare la salute e il corpo, compresa la libertà sessuale e riproduttiva, e il diritto di essere liberi da interferenze “.
La vita sessuale delle donne, la loro sfera riproduttiva è, invece, costantemente sotto sorveglianza: una donna deve stare attenta a non rimanere incinta, ad avere un figlio o una figlia entro parametri ben delineati, a non vestirsi troppo succinta, a non essere stuprata.
Così come deve modulare ambizioni e aspettative professionali e di vita sulla base del proprio corso biologico-riproduttivo. E questo non è affatto giusto.
Inoltre, il diritto alla salute” richiede la rimozione di tutte le barriere che interferiscono
con accesso a servizi sanitari, istruzione e informazione, anche nel settore sessuale e
salute riproduttiva. ” Il protocollo alla Carta africana sui diritti umani e dei popoli sui diritti delle donne in Africa (Protocollo Maputo) riconosce esplicitamente che il diritto alla salute include l’accesso al sicuro e legale aborto, come minimo, in determinate circostanze.
Da giurista, infine, ricordo che il diritto all’uguaglianza di genere, inoltre, è un principio fondamentale della legge sui diritti umani. La Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, “include leggi che hanno sia l’ ” effetto “che lo” scopo “di impedire una donna l’esercizio di uno qualsiasi dei suoi diritti umani o libertà fondamentali su una base di uguaglianza con gli uomini.
Nel 1999, il Comitato per l’eliminazione della discriminazione contro le donne (Comitato CEDAW) ha riconosciuto “leggi che criminalizzano le procedure mediche necessarie solo alle donne e che puniscono le donne che si sottopongono a tali procedure “come barriera all’accesso delle donne all’assistenza sanitaria appropriata.
Perciò, negare alle donneancora oggi l’accesso all’aborto è una forma di discriminazione di genere. Le leggi che limitano l’aborto hanno l’effetto e lo scopo di impedire a una donna di esercitare qualsiasi suo diritto umano o le libertà fondamentali su una base di uguaglianza con gli uomini.
Le donne hanno, infatti il sacrosanto, diritto di decidere se portare o meno una gravidanza a termine. Quando una gravidanza è indesiderata, infatti, la sua continuazione può richiedere un pesante tributo fisico ed emotivo. Le decisioni che si fanno sul proprio corpo, in particolare sul proprio aspetto riproduttivo, giacciono esattamente nel dominio del processo decisionale privato. Una donna incinta può chiedere un consiglio, ma solo lei sa se è pronta per avere un figlio, e i governi, i politici e la Chiesa non dovrebbero giocare nessun ruolo nel prendere quella decisione per lei.
Il diritto internazionale ancora riconosce che le donne hanno il diritto di essere libere da crudeli, inumani o degradanti trattamenti. Il Comitato per i diritti umani ha dichiarato che un trattamento crudele, inumano o degradante non si limita agli atti che causano dolore fisico, ma si applica anche alla sofferenza mentale, che spesso accompagna i dinieghi di accesso ai servizi di aborto. Costringere le donne a portare gravidanze a termine causa sofferenza fisica e mentale. Come risultato delle leggi e delle politiche restrittive sull’aborto, molte donne infatti subiscono complicazioni.
Nei paesi in cui l’aborto è legale e disponibile, è una procedura estremamente sicura. Rendere illegale l’aborto non ne riduce affatto il numero; riduce semplicemente la sicurezza dell’aborto.
In sei Paesi su dieci nel mondo l’aborto è illegale o è permesso solo in casi estremi, come il pericolo di vita della donna, lo stupro o una malformazione del feto. In Europa sono otto i Paesi ad avere una legislazione fortemente restrittiva nei confronti dell’interruzione volontaria di gravidanza. In molti Paesi del Sud America, dell’Africa, del Medio Oriente e del sud-est asiatico l’aborto è strettamente limitato dalla legge. Angola, Egitto, Gabon, Guinea-Bissau, Madagascar, Senegal, Iraq, Laos, Isole Marshall, Filippine, Repubblica Dominicana, El Salvador, Haiti e Nicaragua sono solo alcuni dei Paesi in cui l’interruzione volontaria di gravidanza non è consentita nemmeno nel caso in cui la vita della gestante sia in pericolo. Condizione che invece la autorizza, fra gli altri, in Nigeria, Somalia, Libia, Sudan, Afghanistan, Bangladesh, Paraguay, Venezuela e Indonesia. In quest’ultimo Paese l’aborto è permesso anche in caso di stupro e malformazioni del feto, come anche in Messico, Cile e Panama.
A quarant’anni dalla legge 194 possiamo dire che c’è ben poco da festeggiare: ancora oggi in molti Paesi, nonostante le aspre battaglie, uno dei diritti più basilari all’autodeterminazione femminile viene ancora messo in discussione, attaccato, strumentalizzato.