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Sanità

Il decreto del “serrate” ma non troppo

nico catalano

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di NICO CATALANO

Le vite delle persone valgono più di Pil e profitti


Gestire una grave emergenza sanitaria pari a quella che il nostro Paese sta attraversando in queste ultime settimane è difficilissimo per chiunque. Un compito che diventa ancora più difficoltoso specie quando le inevitabili misure implementate dal governo per sconfiggere un terribile subdolo virus che ogni giorno miete centinaia di vittime rischiano purtroppo di trascinare la nazione nel baratro di una crisi economica e sociale di cui non si conoscono precedenti dal dopoguerra ad oggi. Tutto ciò è esasperato da quella atavica sindrome italica di essere sempre in una perenne campagna elettorale, di dividersi su tutto e di privilegiare il proprio tornaconto corporativo rispetto al bene comune. Un bene comune che in questo caso è rappresentato dalla salute sia dei cittadini ma anche delle tante lavoratrici e dei tanti lavoratori costretti in questi giorni a recarsi sul proprio posto di lavoro, spesso per svolgere mansioni in processi produttivi rilevanti ma non certo di primaria importanza. La scienza ci insegna che durante la presenza di un’epidemia virale, la consistenza del rischio di ammalarsi è data dal prodotto della pericolosità del virus per la vulnerabilità dei soggetti e per l’esposizione degli stessi. Parlando in termini matematici il rischio è una variabile dipendente del prodotto dato dalla moltiplicazione delle tre variabili indipendenti menzionate, pertanto in situazioni di alta pericolosità per ridurre il rischio si cerca di ridurre la vulnerabilità ricorrendo alle vaccinazioni oppure, quando per quel determinato virus non esiste un vaccino, si tende a rendere pari a zero l’esposizione delle persone, attraverso un energico distanziamento sociale. Il teatrino a cui ha assistito il nostro Paese durante quest’ultima settimana ha messo in evidenza le difficoltà dell’esecutivo guidato dal prof. Conte nel mettere in atto tutte le misure di distanziamento necessarie sia per la salvaguardia della salute di cittadini e lavoratori così come per evitare il collasso del nostro fragile sistema sanitario. Se da un lato si sta operando bene tramite controlli e multe per fare rimanere a casa gli italiani, altrettanto non si può dire per quanto riguarda la chiusura della attività produttive, dove si sta agendo con timidezza e poca fermezza. Sabato sera Palazzo Chigi annunciava una chiusura delle attività produttive e dei pubblici uffici ancora parziale, infatti oltre alle attività incluse nel settore alimentare, quelle essenziali del comparto sanitario e quelle comprese nell’ambito della civica sicurezza comparivano tra le ammesse ad essere ancora in attività i codici di identificazione Ateco di diverse attività economiche non proprio connesse ai bisogni primari. Inoltre, l’entrata in vigore del Decreto del Presidente del Consiglio, prevista per il 22 marzo veniva di fatto slittata al successivo 25 marzo con decorrenza sino al 3 aprile prossimo. Un posticipo dettato dalla posizione intransigente di Confindustria preoccupata delle ripercussioni negative che porterebbe tale “serrata” all’economia. Questo slittamento ha provocato sia numerosi disagi nel Paese ma soprattutto una forte presa di posizione dei tre sindacati confederali i quali nei primi giorni di questa settimana hanno minacciato uno sciopero generale se il provvedimento di “chiusura” del governo non fosse stato comprensivo delle tante attività non propriamente essenziali che mettono a rischio ogni giorno la salute dei lavoratori. Una rivendicazione sindacale che anche se parzialmente, veniva accolta tra i malumori di Confindustria da parte dell’esecutivo nel nuovo dpcm in vigore da mercoledì scorso con decorrenza “variabile” sino al 31 luglio. Durante questi ultimi giorni mentre Confindustria, le parti politiche e sindacali discutevano del decreto “della serrata ma non troppo” nonostante la stretta imposta dal governo che ha riguardato le passeggiate con i cani e i runners, in Lombardia la zona sicuramente più colpita dagli effetti funesti del virus, secondo una statistica si sono registrati il 36 per cento degli spostamenti, una percentuale di poco inferiore al 43 per cento rilevato la settimana precedente, un numero ancora elevato e sicuramente derivato dai movimenti dei lavoratori che giungono da casa sui luoghi di lavoro. Per rendere efficiente il distanziamento sociale e dare concretezza ai sacrifici che la stragrande maggioranza degli italiani sta facendo, bisognerebbe finalmente avere il coraggio di privilegiare la vita delle persone e il loro benessere rispetto al mero profitto. Per una volta tanto nella storia di questo Paese, il governo deve uscire dalla logica di essere afflitto dalla perenne sindrome di sudditanza politica verso Confindustria. Confindustria, che in questo momento storico, deve adeguarsi e rassegnarsi come più volte negli anni passati è avvenuto per altre parti sociali che hanno subito un pesante arretramento in termini di diritti e conquiste di civiltà, non si tratta di questioni “ideologiche” siamo di fronte ad un’emergenza senza precedenti, pertanto guadagni e Pil non valgono la salute di una sola persona.

Fonte della foto: il Fatto Quotidiano

Agronomo, ricercatore ecologista, divulgatore e saggista