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Se la ribalta non si nega a nessuno

Insomma si ha successo sempre rispetto a qualcuno che non ne ha.

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Di Rosamaria Fumarola

Che se ne sia consapevoli o meno quella che viviamo è l’epoca del raggiungimento del successo a tutti i costi, l’epoca in cui persino il danaro pare aver abdicato a quel ruolo di bene primario che niente e nessuno sembrava potergli sottrarre.

Giudicare diventa cosa facile, ma la certezza che in questa materia nessuno possa sottrarsi ad un eventuale verdetto di condanna mi fa recedere dal proposito, in favore di un approccio volto alla comprensione del fenomeno e della riflessione su quanto poi questa rincorsa di tutti al successo davvero ci convenga.

Una prima considerazione che va fatta è di carattere filosofico: ognuno ambisce alla ribalta, ma la ribalta presuppone che esista qualcuno che dalla ribalta rimanga fuori, altrimenti lo stesso senso di quel successo rischia di dissolversi.

Insomma si ha successo sempre rispetto a qualcuno che non ne ha.

Il godere di un certo seguito in un settore non può ragionevolmente considerarsi un fatto in sé negativo: esiste da sempre ed è tanto umano quanto necessario per comprendere, attraverso le figure esemplari che lo incarnano, quale sia la strada migliore da percorrere, quella indicata cioè dai maestri più autorevoli. In tale caso ovviamente, il successo delle figure in questione è una ricaduta secondaria rispetto a certi risultati ottenuti in un dato campo e non l’obiettivo di una vita intera. Non credo mi competa stabilire se una data fama sia da considerarsi meritata o meno: so che ogni mia valutazione non è (né potrebbe essere) scevra da egoismi, da invidie, da tutto ciò che cioè viene considerato una debolezza e che invece a parer mio svolge comunque una sua precisa funzione nel grande gioco della sopravvivenza.

Ma se questo tipo di giudizio non è da considerarsi accettabile, lo è invece quello su quanto la fama possa davvero giovarci, su quanto sia cioè in grado di assicurarci la felicità. La mia sensazione è che il saper vivere ed il successo, meritato o no quest’ultimo che sia, siano cose diverse. Il primo presuppone che si abbia con sé stessi un rapporto di equilibrio, nel quale si ritiene cosa saggia non fidarsi di ciò che la propria vanità racconta. Il secondo non sempre va a braccetto con una valutazione lucida di ciò che si è o di ciò che si fa. Una certa fama, che appaga il nostro ego ci viene tributata per ciò che si è fatto, ma finisce col riguardarci anche come individui, venendo valutati acriticamente ed investiti di una perfezione morale di cui nessuno può vantarsi.

In chi dà il successo in verità andrebbe visto un bisogno di sospendere il giudizio critico ed in chi del successo è investito il bisogno di credere in quella valutazione cieca… due facce appunto della medesima medaglia, due bisogni e dunque due debolezze entrambi.

È di tutta evidenza che la creazione di un’opera d’arte eccezionale ad esempio, faccia meritare il successo a colui che l’ha creata, ma questi dovrebbe essere consapevole del fatto che una volta terminata non ne è più il legittimo proprietario e che la perfezione dell’opera non lo riguarda in quanto uomo. Credere troppo a sé stessi, così come credere troppo agli altri non è mai cosa saggia, anche quando si è gli autori di un capolavoro ed ancor di più quando si gode di una fama oggi molto diffusa e cioè quella ottenuta per non aver creato nulla di mirabile, ma per il fatto ad esempio di avere migliaia di followers sui social. In questo caso non è raro che si goda di un certo successo senza che nemmeno si sia consapevole di dover “fare qualcosa” per ottenerlo. È ovvio che si finirà col dipendere da esso e non da ciò che si è capaci di produrre e se da un lato quel successo può significare danaro e potere, dall’altro espone ad una innaturale visibilità che non credo giovi davvero, almeno non per lunghi periodi. Insomma il mio sospetto è che oggi un certo tipo di fama faccia di alcuni di noi dei servi della gleba, certo ben pagati ma privati della libertà, che cioè il successo riguardi perlopiù chi in un certo sistema (comunque di potere) è il più esposto e dunque il più debole.

Nei romanzi di James Ellroy ad esempio, lo star system hollywoodiano, viene descritto come un tritacarne che si è servito e si serve di figure senza arte né parte, disposte a tutto, come operai di una qualsiasi industria, quale Hollywood di fatto è stata ed è e che, sebbene siano coloro che possono apparire i veri beneficiari di una fortuna riservata a pochi, sono i soggetti dei quali si sfrutta il talento, vero o presunto e che pertanto sono di fatto sacrificabili, poiché  sempre sostituibili.

A questo punto dunque, non posso non concludere senza ricordare le parole dell’ artista e writer inglese Bansky, secondo il quale, a dispetto di quanto comunemente si creda, il vero superpotere consiste oggi nell’essere invisibile.

Non mi pare poi così lontano dal vero.

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Giornalista pubblicista, scrittrice, critica jazz, autrice e conduttrice radiofonica, giurisprudente (pentita), appassionata di storia, filosofia, letteratura e sociologia, in attesa di terminare gli studi in archeologia scrivo per diverse testate, malcelando sempre uno smodato amore per tutti i linguaggi ed i segni dell'essere umano