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Società

La barbarie della contenzione psichiatrica in Italia

Non esiste dal 1978 in poi una norma di legge nel nostro ordinamento che autorizzi il ricorso ai mezzi di contenzione, sebbene esistano dei protocolli che ne disciplinano l’uso. Nonostante ciò il loro utilizzo è una prassi non solo tollerata, ma consolidata e non soltanto nei reparti ospedalieri destinati alla cura degli ammalati psichiatrici, ma anche in quelli in cui trovano ricovero pazienti anziani, di qualunque patologia affetti.

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Credit foto Casematte2 ateatro.it

Elena Casetto, diciannove anni, muore il 13 agosto del 2019 nel rogo del reparto psichiatrico dell’ospedale “Papa Giovanni XXIII” di Bergamo, presso il quale era ricoverata.

Suppongo che chi mi stia leggendo avverta come me, un moto di orrore senza pari nel figurarsi per una frazione di secondo, una giovane donna distesa e legata sul letto d’ospedale, guardare in faccia la propria morte mentre tutto intorno brucia. Sono certa che anche voi non riuscirete a far durare che poco più di un secondo, tanto insopportabile vi apparirà, questa infernale visione.

Cerchiamo dunque di guardare alla vicenda da altro punto di vista domandandoci ad esempio, come sia possibile che a quarant’anni anni dall’ entrata in vigore della riforma Basaglia, sia ancora esercitata la contenzione fisica nei confronti degli ammalati psichiatrici (ma anche delle persone anziane!). Si è riusciti cioè a cancellare da un lato l’istituto manicomiale, restituendo dignità di esseri umani agli ammalati psichiatrici e dall’altro a privarli del diritto alla libertà del proprio corpo, che non è messa in discussione neppure nel caso degli autori di crimini efferati che, sia pure entro i limiti di un carcere, godono della libertà di muoversi. Non esiste dal 1978 in poi norma di legge nel nostro ordinamento che autorizzi il ricorso ai mezzi di contenzione, sebbene esistano dei protocolli che ne disciplinano l’uso. E già qui appare evidente una contraddizione in termini che dimostrerà di essere tutt’altro che esclusivamente formale, se si avrà la pazienza di visitare il reparto psichiatrico e non solo di uno dei nostri ospedali, nei quali la contenzione per taluni pazienti pare essere una pratica normalmente accettata. Si potrebbe osservare che il ricorso ad essa sia inevitabile per impedire che l’ammalato possa farsi o fare del male ad altri ed in effetti lo stato di necessità è la giustificazione brandita per ogni tipo di coercizione che riguardi i pazienti psichiatrici, stato di necessità che ragionevolmente, considerando la materia di cui parliamo, non può ritenersi peregrino, ma che non può essere posto in essere senza limiti, primo fra tutti un limite di carattere temporale: il contenimento deve essere momentaneo per indurre l’ammalato a superare lo stato di crisi e garantirgli la cura. L’utilizzo dunque dei letti di contenzione, come nel caso di Elena Casetto, non essendo finalizzato ad un esercizio momentaneo, non deve ritenersi lecito, come peraltro un contenimento del paziente attraverso un uso improprio degli psicofarmaci al solo scopo di mantenere l’ordine in reparto o con intenti punitivi nei confronti del paziente stesso. Attualmente utenti e familiari possono e devono vigilare, in assenza di altre misure di tutela, affinché non si verifichino abusi, chiedendo ad esempio copia delle cartelle cliniche, sebbene a tale proposito converrà ricordare che le cartelle cliniche possono (illecitamente) essere manomesse o non essere aggiornate, come nel caso di Franco Mastrogiovanni, un insegnante elementare di cinquantotto anni che nel 2009, a Vallo di Lucania, in provincia di Salerno, venne fermato dai vigili e costretto in un letto d’ospedale dove, legato mani e piedi senza motivo e così tenuto per 87 ore, senza neppure essere idratato, andò incontro alla morte, della quale gli infermieri si accorsero solo sei ore dopo. Della tragedia esiste un lungo video disponibile in internet e nel documentario “87 ore” di Costanza Quattriglio, che narra puntualmente le atrocità cui l’insegnante fu, senza ragione alcuna, sottoposto. La Cassazione lo scorso anno ha condannato i sei medici e gli undici infermieri del “San Luca” di Vallo di Lucania, sebbene nessuno dei responsabili sia stato detenuto in carcere e sospeso dal proprio lavoro neppure per un giorno. La sentenza della Cassazione si riteneva che avesse posto fine alla barbarie  della contenzione nei nostri ospedali, ma evidentemente le cose non stanno così.

Torniamo dunque alla contraddizione rilevata all’inizio tra una riforma che abolisce i manicomi ed una prassi che si avvale ancora della contenzione fisica. Nel passaggio dalla lettera della legge agli atti concreti che la pongono in essere,  pare non attuato il dettato che impone prima di ogni altra cosa di considerare l’ammalato un essere umano a tutti gli effetti. Come mai non è accaduto o non è sempre accaduto? Perché tutto ciò prevede un’emancipazione culturale che si sa, è la cosa più difficile da raggiungere, poiché si tratta di guardare le cose imponendosi un modo nuovo di chiamarle e questo, laddove i rapporti di forza quotidiani a cui siamo abituati non sussistono e chi ci sta di fronte non è dotato delle nostre stesse armi che gli consentano di confrontarsi con noi, di vincere o di perdere contro di noi, è quasi impossibile da realizzare. La cura della debolezza altrui dipende il più delle volte da precetti religiosi o norme morali che fanno parte tutte del patrimonio culturale. Quando avremo superato il confine, anch’esso culturale, tra un “noi” ed un “loro” (e sappiamo bene che non accadrà e non basterà una sola volta per tutte), porre in essere le graduali mediazioni che consentano, in una situazione di necessità, di approcciarci a chi è in sofferenza in modo non rigido e semplificato, ma flessibile come nel caso di qualunque altro essere umano, la realizzazione dei principi ispiratori della legge Basaglia potrà considerarsi più vicina.

Mi sia consentito infine concludere con una domanda: se per uno scherzo del destino, a torto credessimo che chi ci è di fronte sta per attentare alla nostra vita o a quella di un nostro caro e ci difendessimo per impedirlo, la violenza contenitiva del presunto nemico non ci offrirebbe su un piatto d’argento la prova del fatto che abbiamo ragione e che costui sta davvero per porre fine alla nostra esistenza?

Rosamaria Fumarola

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Scrittrice, critica jazz, giurisprudente (pentita), appassionata di storia, filosofia, letteratura e sociologia, in attesa di terminare gli studi in archeologia scrivo per diverse testate, malcelando sempre uno smodato amore per tutti i linguaggi ed i segni dell'essere umano