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Editoriale

C’era una volta l’Italia unita

Il disegno di legge sull’autonomia differenziata, approvato pochi giorni or sono dal Senato, oltre a rivelarsi un grosso rischio per la tenuta sociale del nostro Paese, assurge a massima rappresentazione della reale natura della Presidente del Consiglio e dei suoi sodali.

La novità, attuativa della riforma costituzionale del 2001 sul titolo V della Carta Costituzionale, non è solo il fiore all’occhiello della Lega, ma rischia di divenire uno dei tratti distintivi della maggioranza targata Giorgia Meloni.

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di Lavinia Orlando

Il disegno di legge sull’autonomia differenziata, approvato pochi giorni or sono dal Senato, oltre a rivelarsi un grosso rischio per la tenuta sociale del nostro Paese, assurge a massima rappresentazione della reale natura della Presidente del Consiglio e dei suoi sodali.

La novità, attuativa della riforma costituzionale del 2001 sul titolo V della Carta Costituzionale, non è solo il fiore all’occhiello della Lega, ma rischia di divenire uno dei tratti distintivi della maggioranza targata Giorgia Meloni.

Ed il problema risiede giustappunto in quest’ultima considerazione. È vero che la Lega degli ultimi anni ha abbandonato le spinte autonomistiche per prediligere il contrasto ai nemici esterni – i migranti – ma è altrettanto chiaro che nessuno si sia meravigliato della riviviscenza delle istanze più strettamente territoriali, così come il ddl Calderoli appena approvato ha bene dimostrato.

Ciò che desta stupore è il totale abbandono delle tesi a difesa dell’unità del Paese espresse, fino a poco tempo fa, dalla Presidente del Consiglio, ma ora totalmente scomparse, tanto da condurre tutti i senatori di Fratelli d’Italia, compresi i molti eletti al sud e, tanto peggio, di origini meridionali, a votare convintamente un provvedimento potenzialmente esplosivo.

Il testo concerne le modalità attuative dell’art. 116 della Costituzione, che prevede la possibilità di attribuire ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni tra le materie di competenza esclusiva statale o concorrente, che potranno diventare di competenza esclusiva delle Regioni, su richiesta delle Regioni stesse e in base ad un’intesa con lo Stato.  

Nel concreto, ciò significa che in materie estremamente sensibili, quali salute, istruzione, sicurezza sul lavoro, ambiente, cultura, finanza pubblica, sistema tributario ed altre ancora, ciascuna Regione potrebbe muoversi autonomamente col concreto rischio di generare differenziazioni nell’erogazione di servizi essenziali e le conseguenti ricadute.

Questo perché i c.d. Lep, Livelli Essenziali delle Prestazioni, ossia gli standard minimi nell’erogazione dei servizi che dovrebbero essere garantiti in tutti i territori, non verrebbero definiti nell’immediato, con la certa conseguenza di consentire differenziazioni normative senza adeguate assicurazioni circa quantità e qualità dei servizi erogati in ciascun territorio. I Lep, inoltre, andrebbero finanziati statalmente, peccato che non sia dato sapere come, dal momento che il Ministro dell’Economia ha subito chiarito che la riforma dovrebbe essere attuata ad invarianza del bilancio statale, con buona pace del principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 della Costituzione. È chiaro, infatti, che chi meno ha e meno ha sempre avuto non potrà assicurare alcuno standard minimo, amplificando il divario tra cittadini del nord e cittadini del sud.    

L’auspicio è che i voti favorevoli dei senatori meloniani – ma lo stesso dicasi per coloro che, verosimilmente, li seguiranno alla Camera – restino indelebili nelle menti degli elettori che si sono espressi a favore della Presidente di Fratelli d’Italia nel meridione d’Italia, che rischia seriamente, una volta attuato tale provvedimento, di giocare ancora di più il ruolo di zavorra di uno Stato che pare sempre meno coeso ed unitario.

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