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Politica

Il razzismo come conseguenza della politica di incapaci

Il particolare momento politico che il nostro paese sta attraversando fa sì che il cittadino vessato consideri responsabile della propria condizione altri, come lui schiacciati, che una politica demagogica gli fa credere essere colpevoli di sottrarre risorse che a lui sarebbero destinate. L’episodio che descrivo nel mio scritto è di tutto ciò sintomatico.

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Qualche giorno fa, per una banale pratica, mi sono recata presso una ASL territoriale della mia città. Preferisco frequentare gli uffici pubblici nei giorni durante i quali sono aperti al pubblico anche il pomeriggio, essendo meno affollati rispetto alle aperture mattutine, o almeno così credevo.

La pratica in questione, fino ad un paio di anni fa, forse tre, poteva essere portata a termine da chiunque in meno di un quarto d’ora nella propria ASL di appartenenza, ma molte delle sedi sono state chiuse, con il risultato che in quelle rimaste aperte, l’affluenza degli utenti ha subito un aumento esponenziale, che ha reso la frequentazione di questi centri un’esperienza kafkiana anche per coloro i quali siano da sempre avvezzi al disbrigo di pratiche che richiedono ci si rechi appunto presso un ufficio pubblico competente.

Consapevole di dover immolare alla causa l’intero pomeriggio e parte della serata e munita di tutti i documenti che erano necessari, mi sono procurata il biglietto col numero che mi prenotava per l’accesso allo sportello, numero che lasciava presumere che ciò sarebbe accaduto, come di fatto è stato, diverse ore dopo. Trovo una seduta libera, che occupo in attesa del mio turno. La sala è gremita, tiro fuori lo smartphone e leggo le notifiche dei social networks, le mail, visito qualche sito che mi ero ripromessa di guardare ed il tempo comunque non passa mai. Molti preferiscono scambiare quattro chiacchiere con chi hanno di fianco. Alcuni incominciano a perdere la pazienza e accusano chi ha raggiunto lo sportello, di perdere troppo tempo o il dipendente di essere lento o svogliato. Interviene un addetto a ristabilire l’ordine ma è in evidente stato di nervosismo anche lui e riesce ad evitare che si giunga alle mani, ma si apparta poi con altri suoi conoscenti, lamentandosi ad alta voce della situazione.

Dopo aver osservato la scena consumatasi alle mie spalle mi giro sulla sedia e torno allo smartphone. Al mio fianco è seduto un ragazzo di colore, che non mi pare avere uno sguardo sereno su ciò che lo circonda e nemmeno su di me, che in tutto questo bailamme avevo comunque dimostrato calma e distacco. Ma la sala si svuotava con una lentezza insopportabile e quanti erano tenuti ad assicurare l’ordine, anziché placare gli animi dei presenti, finivano col fomentarli con la loro aggressivita`, che non facevano alcuno sforzo per controllare. E proprio da uno di questi dipendenti parte un attacco per me inimmaginabile solo pochi minuti prima. Parlando infatti senza preoccuparsi di mantenere basso il tono della voce, esordisce con un “Ma non zo tutt sti stranire che venene do? Ce venene affa`?Non fatigane manghe !”

Io continuavo a dare le spalle al signore ed ai suoi tre o quattro interlocutori, senza interessarmi troppo delle loro chiacchiere che continuavano con l’elenco de ” li stranire”:”Tutt l’ razz stonn: l’ gnore, l’rumene, l’giorgiane, chedd che fascene l’badand e  frechen l’ terris a li vicchie. Chess vicin o’ gnore, ch’ le capidd lung biond  ava esse na giorgian”. La sedia sulla quale sedevo era poggiata sul pavimento tramite assi di ferro fissate con viti. Ho avvertito un colpo, come di piede ed in effetti non mi sbagliavo: l’addetto all’ordine aveva appena sferrato un calcio al cardine su cui poggiava la mia sedia. È stato a questo punto che mi sono girata, avendo io i capelli lunghi e biondi ed essendo seduta di fianco al ragazzo di colore ed ho guardato dritto negli occhi  ad uno ad uno i componenti del gruppetto, che fino a poco prima mi parlava alle spalle. Si trattava di una signora pingue di media altezza, sulla quarantina, con i capelli castani raccolti in un’alta, piccola coda, che mi guardava con un sorriso di scherno e dell’addetto all’ordine, un uomo sui trent’anni, alto, magro, con un lungo giaccone chiaro ed occhiali dalle lenti sfumate grigie, che impedivano di coglierne lo sguardo, intuibile però dall’espressione indurita del volto e dall’uso esclusivo del dialetto per esprimersi. Una terza figura seguiva di quest’ultimo il discorso con un sorriso, ma non si esprimeva sulla questione ” de li stranire”. Preferiva infatti parlare con l’addetto dei gravi problemi di salute che affliggevano il di lei figlio.

Quando li ho fissati tutti e tre hanno smesso di parlare per un attimo, guardandomi a loro volta. Rivolgendomi alla signora pingue ho detto di non essere georgiana, ma di essere italiana e lei, non più in dialetto mi ha risposto: ” E che ne so io? Lui ha detto che tutte le georgiane so bionde com’ a voi!”. In tutto questo il ragazzo di colore aveva finto di non accorgersi del calcio inferto al sedile e guardava davanti a sé senza nessuna espressione sul volto, come un adolescente interrogato a scuola, che non ha fatto i compiti. Avevo in mano la mia carta d’identità ed è stato in quel momento che la paura mi ha fatto fare ciò che in condizioni normali né avrei voluto, né avrei dovuto fare e cioè ho mostrato il documento che comprovava il mio essere italiana, gesto che ha dimostrato tutta la mia meschina debolezza. Avevo infatti paura dell’addetto con gli occhiali sfumati, che mi pareva una molla pronta a scattare, come di fatto è accaduto quando una signora, arrivata in ritardo, anziché procurarsi un nuovo biglietto per prenotarsi, ne ha preso uno lasciato sul bancone da qualcuno che aveva fretta e non aveva più atteso il suo turno. Quel numero consentiva alla donna di passare avanti ad un paio di persone al massimo, che erano in coda allo sportello, ma l’addetto, che si era accorto del gesto, l’ha ammonita facendo la voce grossa. La signora ha risposto con risolutezza, fatto questo che anziché far sì che il dipendente rientrasse nei ranghi, ne ha amplificato la collera. Ha minacciato infatti la donna di chissà quale grave violazione, gesticolando in maniera sempre più vistosa e facendo sì che la signora abbandonasse la sala in preda al panico.

Non mi produrro`oltre nel racconto di un pomeriggio che per me si è concluso come doveva e cioè con il disbrigo della pratica che in quella ASL mi aveva condotto.

Ritengo tuttavia doverosa qualche riflessione sul pomeriggio trascorso assieme ai miei concittadini.

La prima è che una normativa che sopprime un numero elevato di sedi che offrono un servizio pubblico, costringendo migliaia di contribuenti a riversarsi in una stessa  ASL, rimanendoci diverse ore, per pratiche che richiederebbero solo pochi minuti, creando inevitabilmente problemi relativi alla gestione di un numero così grande di utenti, non può da nessun punto di vista considerarsi una buona normativa, ma una disciplina folle e prima di alcuna utilità pratica.

La seconda considerazione è che la presenza di troppi esseri umani in uno spazio fatto per contenerne un numero di molto inferiore, fa sì che costoro, diano tutti il peggio di sé, in preda ad istinti di varia natura, quasi impossibili da controllare.

Infine una terza riflessione riguarda il particolare momento politico che il nostro paese sta attraversando e che fa sì che il cittadino vessato consideri responsabile della propria condizione altri, come lui schiacciati, che una politica demagogica gli fa credere essere colpevoli di sottrarre risorse che a lui sarebbero destinate.

Nella vicenda che ho narrato emerge con tutta evidenza che i baresi presenti nella ASL ritenevano gli stranieri essere l’origine di tutti i loro mali. Da sempre il demagogico espediente, viene utilizzato da politici che non possono considerarsi sprovvedute verginelle, per il raggiungimento di propri scopi, che con il buon funzionamento della cosa pubblica non hanno nulla a che vedere.

Tutto ciò mi fa ritornare con amarezza alla mente una frase che il regista Alan Parker nel film premio Oscar “Mississippi burning” fa dire ad uno dei protagonisti e che recita più o meno così:” Che americano è uno che, tornando a casa, non ha nemmeno un negro da battere?”

Rosamaria Fumarola

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Giornalista pubblicista, scrittrice, critica jazz, autrice e conduttrice radiofonica, giurisprudente (pentita), appassionata di storia, filosofia, letteratura e sociologia, in attesa di terminare gli studi in archeologia scrivo per diverse testate, malcelando sempre uno smodato amore per tutti i linguaggi ed i segni dell'essere umano